PROFILO OPERE

Vita musicale a Milano: Concorso pianistico U. Micheli 2001.
Concerto dei finalisti italiani Andrea Bacchetti e Roberto Prosseda.
 

Opere eseguite allo Spazio Oberdan, martedì 4 giugno 2002, ore 21.

La presenza di Bach vale come una sorta di prologo, a ricordarci il debito storico e linguistico che tanta parte della poetica compositiva del '900 ha contratto, in polemica con la stimmung romantica, nei confronti dello 'artigianato' bachiano. L'epoca di composizione delle Suites inglesi si colloca approssimativamente tra 1720 e 1722. La sequenza dei movimenti è: Preludio (la presenza dei Preludi rappresenta il tratto caratteristico delle Suites inglesi), Allemanda, Corrente, Sarabanda, Passepied I e II, Giga.
Con Debussy siamo in una nuova sintassi musicale in cui le sequenze di note non contano più solo in quanto parte di un tema, ma in quanto concorrono a definire un'immagine sonora complessiva, nella quale tematismo e definizione timbrica sono ormai divenuti una cosa sola. L'Isle joyeuse, del 1905, è la più vasta partitura pianistica di Debussy: lo splendore sonoro del finale e la tensione continua verso una crescente animazione ritmica anticipano qualche tratto della scrittura de La Mer e conferiscono a questa composizione un posto a parte nella produzione pianistica dell'autore francese.
Con Berg e Schönberg siamo al secondo filone della musica della prima metà del secolo XX: la Scuola di Vienna. Ascolteremo due partiture che nascono nella stessa temperie culturale mitteleuropea: a distanza di pochissimi anni l'una dall'altra, ci dicono la rapidità di un'evoluzione linguistica così radicale da essere a tutt'oggi non ancora assorbita.
La Sonata op 1 (1907-8) di Alban Berg, in un solo movimento (che sfrutta la forma del primo tempo della sonata classica come cornice per il proprio svolgimento) è ancora basata su risoluzioni esplicitamente tonali in punti strutturalmente rilevanti della composizione: in questo apparentata al carattere delle opere tardo tonali composte da Schönberg tra il 1904 e il 1908 (in particolare la Kammersymphonie). I Sechs kleine Klavierstücke op. 19 (1911), rappresentano la partitura "estrema" - e per un certo verso atipica - della produzione schönberghiana del periodo espressionista, anteriore alla "scoperta" del metodo dodecafonico: in questa partitura la caduta delle funzioni di organizzazione formale, svolte in precedenza dall'armonia funzionale e dal tematismo su di essa impiantato, porta la forma ad una contrazione estrema, in cui ogni accordo, ogni singola nota, ogni sfumatura espressiva diventa per così dire questione di vita o di morte.
Procedendo ancora in ordine cronologico (The Man I Love è del '24, i Tre Preludi sono pubblicati nel '36) troviamo la figura di George Gershwin, difficile da classificare secondo i parametri tradizionali: resta il fatto che, nella fusione di elementi legati al mondo del jazz e del musical da un lato, al mondo della musica colta dall'altro (le due opere programmate stasera sembrano emblematiche di questo doppio versante), il compositore americano è stato capace di forgiarsi uno stile inconfondibile.
Con Boulez, Berio, Clementi, Ligeti passiamo decisamente alla scrittura della seconda metà del secolo. Le Douze Notations di Pierre Boulez, pezzo giovanile dapprima respinto poi riaccolto dal suo autore che ne ha anche tratto recentemente una serie di pezzi per orchestra, sono state scritte nel '45. Al di là dell'imprinting tecnico, frutto della presa di coscienza da parte dell'autore del metodo dodecafonico (dodici brani, di dodici battute ciascuno, basati su una serie di dodici suoni), conta la capacità del giovane Boulez di creare con pochi tratti situazioni sonore estremamente identificate e riconoscibili: prevale una scrittura che sembra prediligere i contrasti radicali.
Sotto il titolo di Six Encores, Luciano Berio ha radunato una serie di pezzi composti nell'arco di venticinque anni. Stasera ne ascolteremo quattro, rispettivamente Erdenklavier (1969), Brin (1990), Leaf (1990), Wasserklavier (1965). Quest'ultimo è una specie di rilettura "al quadrato" della tonalità di fa minore; gli altri tre pezzi sembrano avere in comune la ricerca su determinati aspetti del pianoforte come strumento "vibrante": gruppetti di note messi in risonanza tramite pedale (Brin), accordi secchi contro accordi affidati al pedale tonale (Leaf), singole note ostinatamente tenute contro sequenze rapide non legate (Erdenklavier).
Per i due brani di Aldo Clementi riporto alcune osservazioni di R. Prosseda: "?lo Studio sul Tocco (1993), prescrive all'interprete di formare melodie utilizzando esclusivamente un gruppo di sei note nella mano destra e un altro gruppo di sei note, speculare, nella mano sinistra. (?) I due gruppi vengono reiterati ed elaborati come in un caleidoscopio, risultando continuamente cangianti ma, nello stesso tempo, sempre identici a se stessi. Anche nelle Variazioni (1999) il linguaggio di Clementi si distingue per una peculiare fascia sonora pulviscolare, quasi un "continuum", apparentemente omogenea e statica, ma in realtà ricca di movimenti interni, con una sottesa trama polifonica a quattro parti. Il ritmo, pur senza bruschi cambiamenti, presenta continue accelerazioni e rallentamenti, conferendo al brano un andamento quasi meccanico".
György Ligeti va pubblicando dal 1985 in poi una serie di pezzi pianistici di difficoltà trascendentale dal titolo Etudes. "Colloco le mie dita sulla tastiera e immagino della musica", dichiara l'autore. La concezione dei pezzi nasce dunque in stretto rapporto con la fisicità tattile del mezzo scelto: scrittura idiomatica per pianoforte, sulla scia di una tradizione compositiva che annovera autori come Chopin e Debussy, appunto. Su questo dato di partenza s'innestano poi influssi poliritmici di certa musica africana, principi di deformazione dei modelli derivati dalla geometria dei frattali, influenze jazz e ascendenze ungheresi (nazionalità originale del compositore), in un pensiero proteiforme e fagocitatore che tutto ingloba per rimanere inesorabilmente se stesso. Di fatto l'indipendenza ritmica delle due mani è alla base di entrambi gli studi in ascolto oggi: Fanfares è basato su di un ostinato ritmico 3+2+3, tipico della musica ungherese e usato frequentemente da Bartók (ma il pezzo 'suona' come Ligeti!); Arc-en-ciel (la mano destra è sempre in 3/4, la sinistra in 6/8) è, secondo l'autore, "presque une pièce de jazz".

(Dario Maggi)


 

 
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