PROFILO OPERE

Il melologo fra Ottocento e Novecento
 

Suona dolce il termine. Ma il significato del sostantivo melologo non è familiare a tutti gli ascoltatori di musica. Secondo i manuali il vocabolo è spagnolo, e recente: venne proposto dal musicologo spagnolo José Puig Subirà per indicare un genere parateatrale ibrido, abbastanza in voga negli ultimi decenni del Settecento, caratterizzato dalla commistione d'un testo letterario (in poesia e prosa) munito di accompagnamento musicale. La singolarità del matrimonio d'interesse tra voce (o voci, ma senza canto) e orchestra quindi tra voce e pianoforte consiste nella compresenza di due registri espressivi. La recitazione è per sua natura libera; il commento sonoro - detto melodrama, melodram, monodram, mélodram - possiede invece un'architettura ritmica e una vocazione formale sua. Tant'è che spesso la declamazione viene ingabbiata metricamente, in modo che le sottolineature della musica non rischino di cadere in momenti poetici poco significativi.

Il primo esempio? Pare il Pygmalion di Rousseau, eseguito con grande successo nel 1770 a Lione. Il melologo divenne una forma solistica e autonoma come nella Medea, nell' Arianna a Nasso (1775) di Jiri Antonin Benda, il compositore boemo tanto ammirato da Mozart, oppure nel Werther (1796) di Gaetano Pugnani. In seguito sopravvisse come episodio drammatico inserito all'interno di partiture operistiche (Medea di Cherubini, Fidelio di Beethoven e molti lavori francesi tra cui Carmen di Bizet) o di musiche di scena, a partire dal quinto atto dell' Egmont di Goethe-Beethoven, poi nel Manfred di Byron-Schumann, nell' Antigone e nell'Oedipus in Kolonos di Sofocle-Mendelssohn e via dicendo.

Nel novero dei melologhi con orchestra entrano anche le cantate, come Der erste Ton   di Weber e il Lélio di Berlioz.

Buona diffusione ebbe anche nell'ambito cameristico, legandosi alle sorti (e a alcuni autori) della lirica da camera, tra cui Schubert, Schumann e il giovane Wagner. Un esempio di formidabile incontro tra declamato e accompagnamento musicale troviamo in alcune composizioni lisztiane in cui il pianoforte svolge un ruolo pienamente "orchestrale" fornendo alla recitazione dei poemi   (su testi di Gottfried August Bürger, Nikolaus Lenau, Moritz Jokai, Aleksej Tolstoj e altri) un interlocutore dotato di forte plasticità evocativa. In grado di interpretare con compiutezza l'idea espressiva affascinante che regge il melologo, cioè il rapporto più autonomo dell'accompagnamento - che accompagna , sì, ma anche commenta - e sfruttando a fondo la prospettiva sonora meno prevedibile del doppio registro drammatico. Il canto-parlato trascina nel quadro   poetico, lo rende partecipe con un dato di realismo che il canto-intonato non possiede: la musica ne propone una trasfigurazione lirica libera dagli asservimenti strutturali propri di uno spartito.

Su questa ghiotta prospettiva troviamo ancora al lavoro molti compositori. Per alcuni (Debussy, Stravinskij, Britten, Walton, Milhaud, Honegger e altri) la restaurazione del melologo è stata una semplice operazione intellettuale. Nel quadro delle complesse esperienze della Scuola di Vienna, lo scheletro del melologo si attualizza unendosi al canto antiromantico, sfregiato e ricondotto al parlato, dello Sprechgesang. Il rinnovato interesse del Novecento per il melologo in forma classica si lega invece in modo specifico alla   testardaggine e alla passione dell'attore e impresario, regista e direttore artistico Ernst von Possart che ebbe il merito di sollecitare (e ottenere) numerose nuove partiture. Da Klose, Max von Schillings, ma soprattutto da Richard Strauss che nel 1897 gli dedicò Enoch Arden , e due anni dopo lo volle protagonista di   Das Schloß am Meere.

"Monaco, 26 febbraio 1897", è la data proposta dallo spartito di Enoch Arden, Basato sulla traduzione tedesca (1886, Adolf Strodtmann) del poema di Alfred Tennyson. Alla base dell'impegno compositivo l'ottimo rapporto personale che legava il musicista a Possart, conosciuto a Monaco nel 1864, durante le recite al Nationaltheater nel Narziss di Alber Emil Bachvogel. Il soggetto, "quintessenza del clima vittoriano", presenta una vicenda amorosa intrecciata di toni idilliaci, di eroismi sentimentali, di drammatiche rinunce grondanti strazianti brume salmastre, secondo la progressione senso del dovere (fedeltà estrema) fino al sacrificio (tramite di espiazione). Per il lungo poema in versi alessandrini, trattato musicalmente in due sezioni, Strauss si conforma all'immagine tradizionale del melologo. Tralasciando le tentazioni di rifondare il declamato e concentrandosi sul ruolo della parte pianistica per comprensibili ragioni di logica espressiva (e di durata) condensata in alcuni episodi chiave del racconto, e reso leggibile dall'uso evidente del Leitmotiv. Passando dalla grande orchestra al pianoforte - il melologo cronologicamente si collega tra due grandi poemi sinfonici, Also sprach Zarathustra   e Don Quixote - l'autore non perde la vocazione a una teatralità diretta, fatta di gesti musicali icastici. "Non esiste in tutta la musica straussiana d'ispirazione letteraria un testo più strappalacrime di questo", sostiene Quirino Principe. Eppure "esistono motivi che rendono Enoch Arden   un esito unico: la presenza della dimensione temporale come agente dell'emozione, l'immagine del mare in tempesta (altre sembianze marine appaiono in più tarde invenzioni, ma non tempestose), e soprattutto l'evidenza drammatica con minimi mezzi."

Ancor più calato nella dimensione romantica, il testo della breve e cupa ballata di Ludwig Uhland Das Schloß am Meere   presentata il 12 marzo 1899 dallo stesso Strauss al pianoforte; "Se in Enoch Arden   era penetrato nella trama e nelle sue pieghe populistiche, nella sua atmosfera nebbiosa, plasmando la moralità vittoriana di Tennyson nelle sembianze della narrativa tedesca già viva alla fine dell'Ottocento e in bilico tra romanticismo e naturalismo", rileva Principe, "qui   egli si traveste in costume, ricalca le linee di uno scenario dai colori scintillanti e delicati, respira un'aria medievalizzante e fiabesca". Un conciso testo si presta al trattamento musicale unitario: Strauss musica con uno slancio unico che prende energia dagli accordi e dai rapidi arpeggi d'avvio, riecheggiato come motto nella conclusione arcana.

Tutt'altro clima nella fiabesca Histoire de Babar   di Poulenc, su testo di Jean de Brunhoff, un lavoro più noto nelle programmazioni musicali per ragazzi. Non a caso. L'atto di nascita di questa estrosa partitura (composta nel 1940) è affidato a una celebre testimonianza di Claude Rostand che non possiamo evitare. Anche la cronaca adotta il tono delle favole: "un giorno Poulenc suonava al pianoforte in un salotto quando una nipotina, una bambina di quattro anni, lo interruppe: "Oh com'è brutto quello che suoni! Ecco, suonami   questo: "E   così dicendo gli squaternò sul pianoforte l'album di Babar di Brunhoff. Divertito e ispirato dalle immagini, Poulenc cominciò a improvvisare. Poi, coinvolto sempre più nel gioco, proseguì il racconto. Attratti dalla musica, a poco a poco giunsero gli altri bambini del palazzo, tutti attorno incantati. Confortato dalla reazione infantile, Poulenc cominciò subito a mettere nero su bianco questa sua composizione dedicata agli undici fra maschietti e femminucce che avevano costituito il suo pubblico".

I nomi di Sophie, Sylvie, Benoit, Florence, Delphine, Yvan, Alain, Marie-Christine, Marguerite-Marie, Marthe e André compaiono ancora sulla prima pagina interna dello spartito. Il clima di gioioso intrattenimento musicale che profuma la storia del piccolo elefante non ha bisogno di alcuna preparazione. Poulenc, pianista eclettico, fantasioso e salottiero come pochi altri nel secolo, usa l'ispirazione e i suoni come un illustratore potrebbe usare matite e colori. Senza manierati bamboleggiamenti, con la freschezza narrativa d'un nonno bonario e disincantato che le fiabe le ha raccontate sul serio e quindi non ha problemi al momento di fornire loro un'adeguata colonna sonora.

(Angelo Foletto)



 

 
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