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PROFILO OPERE |
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Variazioni su un tema popolare russo
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Scrivere per quartetto d'archi significa confrontarsi con
la storia, con un'idioma scritturale intricato e qui assistiamo
a modi differenziati di concepire il timbro, la dinamica e
ogni altro parametro musicale. Prokof'ev
si è confrontato con questa forma soltanto due volte:
il Primo Quartetto risale al 1930, mentre
il secondo, op.92, è del 1941 e subisce, manco
a dirlo, il retaggio culturale particolarmente in voga nella
Russia di quegli anni. E infatti colpisce, nell'intero brano,
l'insistenza su quegli elementi d'ispirazione folklorica vissuti
quale veicolo di avvicinamento al pubblico oltre a quel tipico
motorismo percussivo che connota la produzione del russo;
lo stesso Autore definisce le "vaste folle popolari"
impazienti di avvicinarsi al nuovo, ma al contempo desiderose
di ri-conoscersi in un'idioma musicale nazionale. In verità
tale aspirazione si affacciò nella Russia degli ultimi
anni dell'Ottocento e ha una radice ancora più antica
che sta nella conservazione del patrimonio musicale popolare,
ma l'idea di una musica espressione di un ceppo culturale
e politico di appartenenza fu pianificata negli anni trenta
del secolo scorso, questa volta con una caratterizzazione
ideologica determinante. Un primo tentativo è contenuto
nel documento Indirizzi fondamentali nel campo delle arti
del 1920 e poi nella "consegna sociale" del 1928
sino all'affermazione del "realismo socialista"
nell'agosto del '34.
Al tempo del Quartetto n. 2, dunque sette
anni prima dell'accusa di "formalismo", Prokof'ev
pensa a una musica "leggermente seria" o "seriamente
leggera" che non deve cadere nell'adulazione perché
ciò implicherebbe l'insincerità: "...dall'insincerità
non può venir nulla di buono" e allora il gioco
melodico si fa intensamente lirico, ma agile. Forse il trait
d'union che attraversa l'intero programma del concerto sta
nell'approccio all'opera: la composizione come moto di necessità
in cui non v'è rincorsa dell'effetto a sorpresa né
della "sensazione che intorbida l'intendimento"
per dirla con Stravinskij, ma la sincerità
appunto. E poi la ricerca come motore dell'evoluzione artistica,
ricerca, non esasperata, che ha caratterizzato la produzione
di Stravinskij concretizzandosi nell'approfondimento
costante di una "tecnica vigile" in cui l'idea da
compiere è legata a doppio filo a quella di mestiere
artistico. Lo stesso Stravinskij dice che
"l'invenzione presuppone l'immaginazione, ma non deve
esser confusa con essa, poiché il fatto d'inventare
implica la necessità di una trovata e di una attuazione.
Ciò che immaginiamo non prende necessariamente forma
concreta e può rimanere allo stato virtuale, mentre
l'invenzione non è concepibile fuori della sua attuazione
nell'opera" (da una conferenza tenuta all'Università
di Harvard). Opera che, evidentemente, si configura come una
scossa, un urto provocato dall'incontro tra l'intuizione e
la ricerca che si fa lingua. E ciò si può dire
anche a proposito dei lavori di Cesa e Gentile
i quali, per vie diverse, toccano nuove prospettive. Tornando
a Stravinskij, nei Trois Pieces,
prevale l'enunciato, che il russo aveva fatto proprio, di
Poussin: "il fine dell'arte è il diletto"
e forse si scorge quella meta programmatica che ha caratterizzato
molta altra sua musica dove, addirittura, il diletto è
il fine dell'artista che "deve obbedire alle sole necessità
dell'opera". È la logica della rigorosa sottomissione
all'oggetto in cui l'uomo-artista trova la vera libertà,
è la battaglia all'individualismo anarchico. Tale tematica,
ancora oggi, dopo l'era dello strutturalismo, desta curiosità
e merita, non in questa sede, ulteriori approfondimenti. Si
è accennato al mestiere come condizione preliminare
del fare artistico: nella compositrice Ada Gentile
ciò significa gioco timbrico e dinamico il cui fine
è un illusionismo sonoro reso da una tecnica nitida.
In particolare nel Quartetto III non c'è
complessità costruttiva o l'aspirazione a un virtuosismo
strumentale, ma si fa strada una espressività concentrata,
compressa in massima misura e in cui non poco interesse è
dato ai processi di spazializzazione del suono. L'uso di figure
lineari particolarmente aggressive nella morfologia ritmica
fanno da contrappunto formale a una apparente staticità
ritmico-melodica, ma non dinamica, iniziale. Ada Gentile,
in definitiva, non si perde in inutili sofisticazioni linguistiche
o in effetti strumentali di presa esclusivamente grafica,
ma sembra aver raggiunto un equilibrio sereno tra mezzo grammaticale,
fine espressivo e dimensioni della forma; è qui che
emerge quel mestiere, di stravinskiana memoria, in cui non
c'è spazio per il superfluo, in cui non si ravvisa
retorica alcuna perché vince la logica dell'essenza
che colpisce l'ascoltatore in maniera immediata, istantanea.
Il modo d'attacco è deciso, netto e si pone senza timidezza
come se avesse avuto finalmente luogo quel processo catartico
che emancipa la materia: è la fede nell'energia del
suono, nel suo potere di imporsi persuadendo. Quindi nessun
filtro concettuale si pone all'atto dell'ascolto, nessuna
mediazione occorre per chiarire o spiegare certi processi
perché tutto è organizzato con estrema appropriazione.
Ma, attenzione, qui la ricerca linguistica non cede alcunché;
anzi si assiste al superamento di quel cerebralismo sterile
che ha condotto all'isolamento, al rifugio degli artisti sulle
torri d'avorio.
Con L'usanz di Mario Cesa
il quadro si va ulteriormente completando. Si assesta uno
dei piloni fondanti quella poetica del molteplice che, in
questo caso, significa ri-scoperta del rito popolare, dell'usanza
appunto. Il passato si fonde con il presente e la memoria
antica con il linguaggio odierno o forse, a dire il vero,
quella stessa memoria si ri-crea in un linguaggio musicale,
liberato dalle scorie dell'accademismo, che si evolve generando
una propria drammaturgia. Che non conosce tempi storici di
riferimento, se non un tempo primitivo, basandosi sull'alternanza
del tragico brutale con l'incanto. Tale rapporto trasuda anche
nella partizione formale e nell'evoluzione lineare ove Cesa
si serve della reiterazione di brandelli melodici di canti
popolari convertendo in termini musicali ciò che, nell'ambito
della cultura popolare, è socialmente rilevante. La
drammaturgia di Cesa è antica perché
si costruisce sull'uomo ed è per questo che è
fortemente comunicativa e dunque l'obiettivo riguarda l'annullamento
dell'opposizione natura/cultura ove quest'ultima, caricandosi
di sovrastrutture, dimentica le origini dell'uomo e delle
sue manifestazioni, i riti e gli atteggiamenti, a volte, espressione
della sua "animalità". In questa dinamica
drammaturgica si incontrano l'idea di musica come prodotto
di una regolarità sistemica, la necessarietà
sociale del fare arte e la cultura musicale ufficiale con
le sue sofisticazioni linguistiche. È così che
l'opera si configura, oltre che come espressione artistica,
quale testimonianza di un processo di rappresentazione.
Poche altre parole le dedico al mio lavoro, La scia:
è una stella!, per dire che la speculazione
compositiva si (av)volge intorno a nuclei minimi di intervento
all'interno di una banda dinamica altrettanto ristretta. Si
tratta di una ricerca basata sulla "trasfigurazione"
di pochissimi elementi e sulla "timbricizzazione"
di poche altezze. Poi i frammenti "circolano" generando
dei percorsi, "scientificamente creativi", timbrico-melodici.
La dialettica, tradizionalmente intesa, non è interna,
ma tra l'opera e gli altri, la storia e l'istante che tento
di afferrare fissandolo in suoni. Scrivere musica è
un "confuso", direbbe Borges, provocato
da spinte di vario tipo, persino divergenti, ove convivono
antinomie come lucidità e passione, razionalità
e sentimento. A mio avviso solo apparenti antinomie.
Agli ascoltatori cosa dire se non pretendere da sé
stessi l'annullamento di ogni apriorismo per lasciarsi trasportare
in un viaggio sonoro che prescinde dal tempo, rifugge, in
fin dei conti, le ideologie, è misura dell'attimo.
Gianvincenzo Cresta
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