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PROFILO OPERE |
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?Pierrot lunaire? e dintorni |
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R. Schumann (1810-1856) Märchenbilder
op.113, per viola e pianoforte
L'op. 113 appartiene all'ultima stagione creativa di Schumann
(1810-1856), che di fatto si concluderà nel 1854 quando,
dopo un tentativo di suicidio nelle acque del Reno a Düsseldorf,
su sua stessa richiesta sarà internato nel manicomio
di Endenich dove due anni dopo morirà senza avere più
ripreso contatto con la realtà.
Le Märchenbilder, che potremmo liberamente tradurre "immagini
fiabesche", si ispirano, come le Märchenerzählungen
op. 132 per pianoforte, viola e clarinetto, a quelle leggende
germaniche popolate da fate e folletti che da sempre costituiscono
uno dei fondamenti della poetica di Schumann. Nel suo diario
d'arte e di vita quotidiana, alla data del 4 marzo 1851, si
legge un'allusione a "Storie per viola" (Violageschichten)
e a quella del 5 a "Storie di fate" (Märchengeschichten).
L'interesse per la viola gli è stato dettato da Johann
von Wasiliewski, un suo allievo dei tempi di Lipsia, che già
il 15 marzo del 1851 comincia a leggere l'op. 113 con Clara
Wieck, la moglie di Schumann, al pianoforte. L'anno dopo il
lavoro è pubblicato, con dedica a Wasiliewski che nel
frattempo aveva chiesto ed ottenuto che il compositore apportasse
alcune modifiche alla parte della viola; e finalmente, il
12 novembre 1853 l'op. 113 è eseguita in prima assoluta
all'Hotel de l'Etoile d'or di Bonn, con Wasiliewski alla viola
e la Wieck al piano.
Il piccolo ciclo è formato da quattro brevi brani,
che hanno un riferimento diretto o indiretto alla tonalità
di Re minore: 1. Nicht schnell; 2) Lebhaft; 3) Rasch; 4) Langsam,
mit melancholischen Ausdruck.
Il primo (Non veloce) - in 3/4 e in Re minore - è in
forma tripartita ed è costruito attorno ad un serrato
dialogo soffuso di malinconia tra i due strumenti.
Il secondo (Vivace) - in Fa maggiore (relativo maggiore di
Re minore) - è un energico rondò, con il ritornello
in ritmo puntato affidato alla viola.
Nel terzo (Rapido) - ancora in Re minore ed in 2/4 - si respira
un'atmosfera di ballata fantastica, attraversata da un moto
perpetuo di terzine molto veloci della viola, appena interrotto
da una pausa meditativa.
Il quarto ed ultimo brano (Lento, con un'espressione malinconica)
- in Re maggiore ed in 3/8 - è una berceuse vibrante
come saranno di lì a poco le berceuses di Johannes
Brahms, da Schumann considerato il suo erede diretto.
G. Kurtág (1926) Hommage
a R. Schumann op.15d, per viola, clarinetto e pianoforte
L'organico dell'Hommage à R. Schumann op. 15d di Kurtág
(1926) ricalca quello della citata op. 132 del musicista tedesco:
viola, clarinetto e pianoforte. Alla viola, la cui letteratura
è purtroppo alquanto esigua, il musicista ungherese
dedica tra il 1987 ed il 1994 i Neuen Stücke, che fanno
parte di un complesso di lavori da camera paragonabili ai
più noti Jatékok (Giochi per pianoforte), anche
questi di dichiarata ascendenza schumanniana. L' articolazione
dell'op. 15d, completata nel 1990 su idee e schizzi che risalgono
ad una trentina d'anni prima, riprende l'idea del ciclo cara
a molta letteratura musicale romantica, da Schubert a Brahms,
e tardoromantica con Mahler. E proprio quest'ultimo viene
in mente quando si esamina con attenzione l'Hommage: cinque
brani seguiti da un sesto, la cui lunghezza (quasi sei minuti)
è di gran lunga superiore alla somma delle durate degli
altri (meno di tre minuti). Il pensiero corre al mahleriano
Lied von der Erde (Canto della terra, 1910), del quale ripete
non solo il titolo del sesto ed ultimo brano (Abschied/Addio),
ma anche il senso di evanescenza nel nulla, lì affidato
alla voce e ad un etereo gioco di timbri, qui al soffio del
clarinetto che scompare in lontananza.
La successione dei sei brani dell'Hommage, quattro dei quali
rimandano ad altrettanti personaggi creati dalla fantasia
poetica di Schumann, è la seguente: 1. Merkwüdige
Pirouetten des Kepellmeisters Johannes Kreisler (Curiose piroette
del Kapellmeister J. K.). Il Kapellmeister è affidato
ai ghirigori ascendenti e discendenti di un disegno musicale;
2. E.: der bregenzte Kreis (Eusebius: il cerchio delimitato).
Per Eusebio Kurtág amplia uno dei Kafka- Fragmenten
conferendogli, come in un cerchio, un andamento a canone.
3. "..und wieder zuckt es schmerzlich F. und die Lieppen.."
("..e Florestano sente di nuovo il profilo delle sue
labbra trasalire dolorosamente"). È un episodio
dalle sonorità dolorosamente aggressive. 4. Felhó
valék, màr süt a nap.. (Ero una nuvola,
ora il sole brilla già..).Il titolo proviene dal poema
dello scrittore ungherese del primo Novecento Attila Jozsef,
al quale Kurtág è particolarmente legato. 5.
In der Nacht (Nella notte). L'andamento a fasce sonore sovrapposte
crea una atmosfera da incubo, vicina a quella di certe allucinazioni
fantastiche di Schumann. 6. Abschied. Meister Raro entdeckt
Guillaume de Machaut (Addio. Maestro Raro scopre Guillaume
de Machaut). Il riferimento al grande compositore francese
del Trecento da parte di Maestro Raro, la figura equilibratrice
tra quelle contrapposte di Eusebio e Florestano, si risolve
in un andamento da passacaglia quasi da marcia funebre che
svanisce nel silenzio.
La composizione del Pierrot lunaire op. 21
di Arnold Schönberg (1874-1951) si situa
in chiusura di un periodo creativo molto fecondo, aperto dal
ciclo dei Lieder op. 15 su testi di Stefan George (1908) e
concluso nel 1913 da queste ventuno liriche ricavate dai cinquanta
"Rondels" pubblicati nel 1884 dal poeta simbolista
belga Albert Giraud e tradotte in tedesco da Otto Erich Hartleben
nel 1892.
Sono gli anni che il musicista viennese definisce d'"incessante
ricerca di verità e di essenzialità", alle
quali si può aspirare solo se sorretti da una lucida
tensione morale, a sua volta determinata dall'ineludibile
necessità di denunciare l'avvenuto tramonto del linguaggio
tradizionale e, contestualmente, di punti di riferimento certi.
In una lettera a Vassilij Kandinskij ritorna più volte
la frase: "La musica non deve ornare. Deve essere vera",
ovvero seguire una costrizione interiore ("einem inneren
Zwange folgen").
La genesi del Pierrot è legata, caso davvero raro in
Schönberg, ad una commissione; all'inizio del 1912 gli
giunge a Berlino, dove si è trasferito l'anno precedente
per insegnare al Conservatorio Stern in sostituzione di Ferruccio
Busoni, una proposta dell'attrice Albertine Zehme per un ciclo
di melologhi su testi di Giraud-Hartleben (il melologo, in
tedesco Melodrama, è un genere al quale molti compositori,
da Schumann a Richard Strauss si sono avvicinati, nel quale
la musica accompagna la recitazione di un testo). La proposta
affascina subito Schönberg, che si mette immediatamente
al lavoro, allontanandosi però ben presto dall'idea
della committente: al pianoforte, infatti, affianca dapprima
un clarinetto e poi ben presto gli altri strumenti, per un
totale di otto ma affidati solo a cinque strumentisti (il
flautista suona anche l'ottavino, il clarinettista anche il
clarinetto basso, il violinista anche la viola). Il 16 ottobre
1912 c'è la prima a Berlino, dove ottiene un successo
che si ripete - sia pure un po' meno convinto - nella successiva
tournée, nel corso della quale Schönberg si alterna
alla direzione con il giovane Herman Scherchen.
L'aspetto più controverso del Pierrot è rappresentato
dalla scrittura vocale, lo Sprechgesang, che non dovendo essere
né recitazione né canto dovrebbe risolversi
in un "canto parlato" sulla cui realizzazione -
a dire il vero- nemmeno Schönberg ha, né mai avrà,
le idee chiare. Nella premessa alla partitura è prescritto
che l'interprete non debba cantare (ad eccezione delle poche
note per le quali è esplicitamente indicato), bensì
ottenere un effetto di "melodia parlata" rispettando
le durate delle note che una volta intonate all'altezza prevista
devono essere subito dopo abbandonate. Ma in un'incisione
degli anni Quaranta da lui diretta la resa vocale della protagonista
è molto libera, attenta più alla espressione
del testo che al rispetto di quelle indicazioni.
Molta più importanza Schönberg attribuisce invece
ad altri parametri, quali: 1) il rapporto tra piano vocale
e piano strumentale; 2) la timbrica; 3) la scrittura contrappuntistica.
I primi due sono all'insegna della varietà; se in alcune
liriche i due piani si dispongono in piena autonomia reciproca,
in altri sono strettamente collegati: nel n. 7, ad esempio,
il titolo di Parodie offre il pretesto per una rigorosa imitazione
tra voce e strumenti; nell'ultimo, O alter Duft, la prima
raddoppia la linea dei secondi. Anche riguardo al timbro le
soluzioni sono diversissime all'interno di due estremi: da
una parte un solo strumento - il flauto nello specifico -
a sostegno alla voce (n. 7: Der kranke Mond), dall'altra l'intero
ensemble (n. 21: O alter Duft). Comune a tutti i brani è
un utilizzo degli strumenti sino al limite delle singole potenzialità
timbriche, quasi sempre taglienti e accostate per contrasto,
mai per fusione.
Ma l'elemento caratterizzante del Pierrot è senza dubbio
il ricorso al contrappunto; oltre all'imitazione già
messa in luce in Parodie, da segnalare almeno la passacaglia
(variazioni su un basso) del n. 8 ed il doppio canone del
n. 18, dove Schönberg sembra ricordarsi di certi artifici
descrittivi della polifonia cinquecentesca (madrigalismi):
al testo che fa riferimento al tentativo di Pierrot di cancellare
la "macchia bianca della chiara luna" sul dorso
del mantello, corrisponde un doppio canone, ovvero un'esposizione
del tema dapprima in maniera regolare, quindi dall'ultima
nota verso la prima (moto retrogrado).
Sempre in tema di linguaggio va segnalato che mentre tutte
le poesie hanno una struttura fissa - tredici versi con il
settimo ed ottavo che ripetono il primo e secondo, e l'ultimo
che riprende il primo- in nessun modo questa fissità
trova un corrispettivo in ripetizioni musicali; e proprio
dal contrasto tra meccanicità del testo e varietà
della conduzione compositiva scaturisce una tensione espressiva
che si propone come l'elemento più qualificante di
questa pietra miliare nella musica del XX secolo.
Ettore Napoli
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