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PROFILO OPERE |
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Parola e suono in terra di frontiera
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Il rapporto tra parola e suono, tra poesia e musica, è
uno dei fini supremi dell'arte. Come configurarlo, è
una delle supreme difficoltà del pensiero estetico.
Nella prima scena dell'opera Capriccio di
Richard Strauss, il poeta Olivier
e il musicista Flamand, innamorati della
stessa donna, l'affascinante contessa Madeleine, attendono
da lei una scelta a favore dell'uno o dell'altro, ma sanno
che tale scelta significherà anche il primato della
poesia o della musica. Rivaleggiando con eleganza, in alta
e civile contesa, essi convengono su un tipo di relazione
tra i due linguaggi d'arte: musica e poesia sono fratello
e sorella. Ma se incrociamo questa definizione con quanto
scrive Platone nei Nomoi
a proposito della synarmogé tra parola e suono musicale,
se pensiamo a Richard Wagner e alla sua idea
di un connubio perfetto tra poesia e musica, dovremmo combinare
la metafora della relazione fraterna con l'altra, quella del
matrimonio tanto più riuscito quanto più il
linguaggio poetico e quello musicale sono consanguinei e quanto
più alto è il grado di qualità in cui
si congiungono. Perciò, la relazione ideale tra poesia
e musica è un connubio fraterno, un incesto: qualcosa
di peccaminoso e sublime insieme, come l'amplesso di Siegmund
e Sieglinde da cui fiorisce il sangue dei
Welsidi.
In verità, il connubio è sovente imperfetto,
come avviene nella storia del teatro musicale: le opere italiane
del primo Ottocento (Verdi, lo sappiamo,
non è immune da questa iattura), le opere tedesche
dello stesso periodo (si pensi a Weber o
a Marschner), ci si presentano con testi
mediocri e musica geniale, talora vale l'inverso, e le men
che mediocri liriche per voce e pianoforte composte in Italia
su testi di Dante tra la fine del secolo
XIX e il principio del XX sono quasi sempre manierate e monotone
nella loro veste musicale. Il connubio perfetto avviene nel
Lied, dove si uniscono poesia altissima di
grandissimi autori - oppure poesia di autori "minori"
ma pur sempre di limpida e salda fattura - e musica di altrettanta
alta invenzione.
Poiché abbiamo indicato sommariamente diversi gradi
di qualità verso un rapporto perfetto e un ideale connubio
amoroso, risulta difficile offrire una collocazione teoreticamente
esatta al melòlogo, genere anomalo e quasi ribelle
alle formule estetiche. La recitazione parlata in coincidenza
con la musica, ad essa alternata oppure sovrapposta, ha diverse
denominazioni, sulle quali è bene fare un minimo di
chiarezza. In tedesco e in inglese (anche in russo e in altre
lingue slave, per assimilazione) si usano i termini melodrama
o Melodram(a) o Monodram:
quest'ultimo, però, può indicare anche tutt'altra
cosa, ossia una breve opera con un solo personaggio-cantante,
come per esempio Erwartung di Schönberg. In francese
si usa il termine mélodrame, che tuttavia è
impiegato anche per indicare un genere teatrale tipico della
Francia ottocentesca, ossia il dramma popolare a forti tinte
con attori che recitano parlando sulla scena mentre una musica
fa da colonna sonora: un genere, com'è evidente, abolito
dall'avvento del cinema, sia esso muto o sonoro, che ne prese
il posto. Del resto, il mélodrame così inteso,
ossia come genere scenico (esempio celebre, Les deux forçats
di Eugène Cantiran de Boirie, Pierre
Carmouche e Adolphe Poujol, musica
di Louis-Alexandre Piccini, 1823), è
diverso dall'oggetto del nostro discorso, ossia dal mélodrame
inteso come recitazione di un attore sulla musica, soltanto
perché quest'ultimo è un genere non scenico
bensì "da concerto"; ma il principio teoretico
ed estetico è il medesimo. Parola e musica si associano
ma non si accoppiano, coincidono ma non si fondono.
In italiano si usa il termine melòlogo, ossia logos
e melos, parola e melodia affiancate ma non unite. È
probabile che l'origine del termine sia da rintracciare in
Spagna e in lingua castigliana: pare che melòlogo sia
stato proposto per la prima volta dal musicologo iberico José
Subirá (1882-1980).
Quindi, il melòlogo non è un connubio: è
un confronto a una civile e bene educata distanza che esclude
il contatto, è un flirt e un corteggiamento amoroso
ma non un amplesso o un matrimonio. Nel melòlogo, parola
e musica raggiungono una terra di frontiera, incontrano un
limite invalicabile, e là si fermano: ciascuno dei
due linguaggi sviluppa al massimo grado la propria semantica
e la propria espressività, ma ciascuno rimane sé
stesso. Rispetto al Lied e ai suoi omologhi culturali (la
mélodie di Duparc o Fauré
o Debussy, la romanza di Musorgskij
o di Tosti, il song di Stanford
o di Elgar o di Bernstein),
dove la fusione avviene per via chimica e per affinità
elettive, il melòlogo tenta la strada quasi impossibile
della fusione-che-non-fonde, del fidanzamento che separa i
promessi sposi. Si direbbe persino un tentativo "più
perfetto", che dopo aver realizzato le condizioni per
quel tipo di fusione che si attua nella poesia-musica del
Lied e che è quasi una terza arte
complessa, supera tali condizioni con una rischiosissima scelta,
regalando ai due elementi, nello stesso tempo, la possibilità
di un connubio e la piena indipendenza del single.
Percorrendo la storia del melòlogo, e partendo, per
convenzione approssimata, dalle Biblische Sonaten
(1700) di Johann Kuhnau, per recitante e
clavicembalo, spesso indicate come primo esempio del genere,
incontriamo lavori eminenti e originali come Ariadne auf Naxos
(1775) di Georg Benda, che è un melòlogo
orchestrale, e Werther (1790), anch'esso
orchestrale, di Gaetano Pugnani. Tra Settecento
e Ottocento nacquero i lavori di Peter von Winter,
e stiamo elencando solo alcuni esiti di rilievo, poiché
il genere ebbe una folta letteratura. Infatti, nel secolo
XVIII il melòlogo fu inteso come un genere primario
e di normale repertorio: il secolo XIX, che pure produsse
i massimi capolavori nel genere secondo lo spirito romantico
fautore di un'accentuazione "letteraria" della musica,
diede al melòlogo una funzione eccezionale, quasi di
curiosità. L'area austro-tedesca acquisì in
quel secolo un primato, con preziose invenzioni di Franz
Schubert, Robert Schumann, Richard
Wagner (la preghiera "O neige..." di Gretchen
nel Faust di Goethe),
Friedrich von Flotow, Carl Löwe,
Friedrich Nietzsche, e soprattutto di Richard
Strauss, il cui Enoch Arden è
probabilmente il più ampio testo declamato su musica
di tutto il secolo XIX, un vero romanzo melologico. Nell'area
austro-tedesca, il melòlogo appare spesso all'interno
di opere teatrali, come Fidelio di Ludwig
van Beethoven, Fierrabras di Franz
Schubert, Preziosa e Der
Freischütz di Carl Maria von Weber,
Der Vampyr e Hans Heiling
di Heinrich Marschner, Der ferne
Klang di Franz Schreker. Altre culture
nazionali illustrarono il genere con opere di grande bellezza:
Lélio di Berlioz,
Façade di Walton,
Perséphone di Stravinskij.
Non dimentichiamo che il melòlogo confina con un altro
genere, le musiche di scena per un testo drammatico, e in
propositpo dobbiamo citare almeno due capolavori sommi, Thamos,
König in Ägypten di Mozart
e Manfred di Schumann.
A questo variegato repertorio attinge il nostro programma.
Di Franz Schubert (Lichtenthal presso
Vienna, 31 gennaio 1797 - Vienna, 19 novembre 1828) si ascolterà
il melòlogo Abschied von der Erde
("Addio alla terra") D. 829 (17 febbraio 1826),
il cui testo è un frammento dalla lirica Der
Falke del barone Adolph Pratobevera von Wiesborn
(1806-?). Robert Schumann (Zwickau in Sassonia,
8 giugno 1810 - manicomio di Endenich presso Bonn, 29 luglio
1856) è presente in programma con Die Flüchtlinge
("I fuggiaschi") op. 122 n. 2 (1852) il cui testo
è la traduzione tedesca di una ballata di Percy
Bysshe Shelley (1792-1822). Franz Liszt (Raiding,
Ungheria, 22 ottobre 1811 - Bayreuth, 31 luglio 1886) ci ha
lasciato vari melòloghi, il più ampio e clamoroso
dei quali è il terrificante Lenore (1857-1858, rev.
1860), sul testo della celebre ballata omonima (1787-1788)
di Gottfried August Bürger (1747-1794),
notissima in Italia per essere stata tradotta e presa ad esempio
di stile romantico da Giovanni Berchet in
appendice alla sua Lettera semiseria di Grisostomo
(1816) considerata da molti il manifesto del romanticismo
italiano. Friedrich Nietzsche (Röcken
presso Lützen in Sassonia, 15 ottobre 1844 - Weimar,
25 agosto 1900) rappresenta una curiosità in questo
programma, in cui appare come musicista e compositore del
melòlogo Das zerbrochene Ringlein
("L'anellino spezzato", 1863) su testo del sommo
poeta romantico Joseph von Eichendorff (1788-1857).
La seconda parte del programma sarà interamente dedicata
a uno dei più squisiti melòloghi della storia,
che è nello stesso tempo uno dei capolavori del suo
autore e di tutto il Novecento musicale. Il poeta e pittore
Jean de Brunhoff (Parigi, 9 dicembre 1899
- ospedale di Vermala, Svizzera, 16 ottobre 1937) era figlio
dell'editore Maurice de Brunhoff, noto per
i libri rari e raffinati che pubblicava: una famiglia ricca,
intellettualmente vivace e creativa. Dotato di un precoce
talento artistico, Jean era un giovane brillante, sportivo,
di bellissimo aspetto, quando conobbe in una cerchia di pittori
Émile Sabouraud detto Mio, figlio
di un insigne dermatologo, e ne sposò la graziosissima
e intelligente sorella Cécile nel 1924. Ebbero tre
figli: Laurent (n. 1925), Mathieu (n. 1926), e più
tardi Thierry (n. 1936). Era una famiglia felice, appagata
da molteplici attività d'arte e di cultura. Amavano
passare l'estate a Vermala, una località alpina della
Svizzera francese. Qui, in una sera estiva del 1930, quando
Laurent e Mathieu avevano rispettivamente cinque e quattro
anni, il piccolo Mathieu aveva mal di stomaco e non riusciva
a prender sonno. Sua madre Cécile, per calmarlo, inventò
lì per lì la storia di un elefantino intrepido
e molto bene educato. I due bambini se ne entusiasmarono,
e la mattina dopo raccontarono la storia al padre. Jean de
Brunhoff decise di scriverla, e di arricchirla con illustrazioni;
poiché il piccolo elefante non aveva ancora un nome,
fu Jean a trovarne uno con la collaborazione dei figli: nacque
così "Babar", forse una contaminazione di
"papà" e "bébé",
magari con qualche reminiscenza di un altro termine affidato
al caso (un tagliacarte in un vocabolario, si dice) e destinato
a significati eminenti nella storia delle arti: "dada".
Da allora, il piccolo e ardimentoso Babar fu protagonista
di innumerevoli storie a catena, inventate in casa Brunhoff
e illustrate dalla splendente fantasia di Jean. Ma le estati
felici sulle Alpi ebbero tristemente fine nel 1937. Quell'anno,
soltanto la madre e i figli ritornarono a Parigi da Vermala:
Jean, inguaribilmente malato di tubercolosi ossea, rimase
in un ospedale svizzero, dove morì in autunno. Babar
risuscitò nel 1946, quando Laurent, anch'egli divenuto
pittore di fama, continuò l'opera narrativa e figurativa
del padre. Nel frattempo, però, l'elefantino era stato
assunto nella sfera artistica di un'altra arte, la musica,
poiché nel 1940 era avvenuto l'incontro tra i Brunhoff
e un compositore fra i più amabili e geniali, Francis
Poulenc (Parigi, 7 gennaio 1899 - ivi, 30 gennaio
1963). Non ci dilunghiamo sulla collocazione di Poulenc all'interno
dei "Six", ossia della cerchia (consacrata dalla
benedizione estetica di Erik Satie e di Jean
Cocteau) cui appartennero Honegger,
Milhaud, Auric, Durey e la Tailleferre:
sei compositori che ebbero in comune (come molti altri, del
resto) la qualità di costituire un'alternativa alla
Wiener Schule, a Schönberg,
al wagnerismo, ma che per altro coltivarono ciascuno un proprio
stile.
Poulenc creò, di suo, uno stile incantevole: un settecentismo
campato tra Couperin e Mozart,
e visto attraverso le lenti colorate del Novecento francese,
in una zona del tutto originale ma confinante con Ravel,
Roussel, Magnard. Artista ironico e lievemente anarchico,
subì una conversione religiosa che lo rese cattolico
credente dopo un pellegrinaggio alla "Vierge Noire"
di Rocamadour il 22 agosto 1936. Il suo stile ne risentì,
facendosi ancora più trasparente e flessibile, amabile
e morbido, sottile e aereo. Il delizioso melòlogo,
Histoire de Babar, fu composto in più
riprese, a causa delle difficoltà degli anni di guerra,
tra il 1940 e il 1945.
Quirino Principe
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