PROFILO OPERE

Giovani talenti dell’esecuzione
 


Opere eseguite alla Palazzina Liberty a Milano il 10 ottobre 1996
Benché separati da appena nove anni, Maxwell Davies e Brian Ferneyhough sono due musicisti tra loro molto diversi: per formazione, scelte artistiche e linguaggio. Il primo ha avuto un’educazione musicale composita - tra gli altri, ha studiato con Goffredo Petrassi e Roger Sessions - e ben presto ad un’intensa attività compositiva ha affiancato quella, altrettanto vivace, di organizzatore di musica contemporanea, nonché di insegnante in scuole di adulti e, soprattutto, di bambini. Questo rapporto multiforme con la musica ha influenzato le scelte estetiche ed artistiche di Maxwell Davies, nel senso di un legame diretto con la tradizione polifonica medievale e rinascimentale, inglese e non; in secondo luogo, l’attività didattica intesa come trasferimento comprensibile di idee e informazioni si è riflessa in una tendenza, sempre più marcata con il passare degli anni, verso una semplificazione delle strutture. Quanto al linguaggio, una volta superato l’interesse per il serialismo integrale (Sonata, 1955, per tromba e pianoforte), Maxwell Davies gli ha conferito una crescente trasparenza e fluidità di scrittura; non è escluso che a questo riguardo abbiano giovato le numerose trascrizioni di pagine del passato (risale al 1961 quella per coro e orchestra del Vespro di Monteverdi). E questo intento di comunicazione diretta del musicista inglese è rafforzato dall’interesse per il teatro, anche per bambini (Cinderella, 1980), e dal carattere fortemente spirituale di molte pagine. La presenza del passato nella musica di Maxwell Davies si manifesta attraverso vie diverse: Sub tuam protectionem, ad esempio, fa un duplice riferimento a John Dunstable, una delle presenze più significative nella polifonia inglese del XIV secolo, per il titolo e per il carattere modaleggiante delle battute d’apertura, alle quali segue una ricerca di effetti timbrici di notevole suggestione. I Six Secret Songs, posteriori di ben ventiquattro anni, ci rivelano un Maxwell Davies molto raccolto, dalla vena lirica profonda sì, che però non zampilla mai a getto pieno; lasciata intravedere più che cantata con abbandono. Tutt’altro il percorso di Ferneyhough, che grazie anche alla lezione di Klaus Huber (Basilea) e alla frequentazione dei Ferienkurse di Darmstadt (dal ’76 all’ 86 vi è intervenuto anche come docente) è stato sempre in contatto con le tendenze più avanzate e comunque al passo con i tempi della musica contemporanea. Il riferimento alla miniatura contenuto nel titolo della pagina in programma non tragga in inganno; è vero che le Four Miniatures si pongono come schizzi, come idee solo accennate, ma si tratta di una disgregazione di linguaggio - e formale - che oltre ad essere al passo con quanto avveniva in Europa alla metà degli anni ’60 rivela quella che allora si chiamava “spazialità sonora”, “gusto materico”. Il brano di Chris Dench si pone sulla scia del precedente solo sul piano della complessit? delle prescrizioni esecutive, peraltro qui a volte così numerose (ben sei pagine) e sfumate (ben dieci indicazioni dinamiche, compreso il segno “O” per il final emergence/vanishing from audibility of the sound). Per il resto, Closing Lemma ha un carattere barocco, di continua ricerca di effetti, essenzialmente timbrici, tale da spingere l’esecutore lungo impervi sentieri tecnici (vedi le diteggiature) ed espressivi, ora lirici, ora accesi. Anche Gymel di Castiglioni si muove alla ricerca di effetti, e non solo timbrici, come molte altre pagine del compositore milanese dello stesso periodo (si pensi a Movimento continuato per piano e 11 strumenti, o a Tropi per cinque strumenti e percussione). Ed ecco allora effetti d’eco e di riverberazione e nel finale un quasi ineseguibile passaggio in trentaduesimi marcato “velocissimo e confuso, come un trillo continuo”, chiuso da una citazione della Sinfonia n. 5 di Beethoven. La suite Come io passo l’estate è fascinoso esempio di romantica “fanciullezza”e “ingenuità” oltre che diaristica confessione. Le pagine di Soccio e Sonia Bo sono molto più recenti. Sul suo pezzo Giuseppe Soccio ha scritto: "Spirali: di una chiara fonte per flauto solo, scritto nella prima metà del 1982, è stato revisionato completamente nel 1986. Si compone di tre letture-riconsiderazioni di elementi precedenti l’inizio del lavoro, e che progressivamente si stratificano rispondendo ad una esigenza di respiro formale, in cui la sua struttura viene definita dal rigore del piano armonico. La prima lettura indaga sul materiale spiraliforme e fissa ambiti e assi con un centro; la seconda trasforma il centro in punto vuoto sottinteso, e vi compare con insistenza il negativo come spettro ed espansione del campo sonoro-spaziale; nella terza, infine, insieme ad elementi trasformati provenienti dalla parte II, e ad espansione e proiezione nel tempo e nello spazio di elementi della parte I, un frammento per volta viene considerato come centro mobile da cui determinare la direzionalità e l’articolazione. A quest’ultima lettura fa seguito come appendice una breve sezione fortemente compressa e con omissioni come una sorta di cubismo in cui vengono filtrate alcune parti rispetto alla terza lettura, a causa dello spazio e del rifiuto del'ovvietà geometrica; sempre nelle ultime righe, si inserisce una esagerata rotazione del flauto che provoca lo sfaldamento del materiale e dei relativi processi: una sorta di rifiuto, di chiusura dello strumento, che ruota per giungere, attraverso il soffio e il sibilo, al silenzio.". I tre brevi pezzi della compositrice lecchese si ispirano ad altrettante poesie di Giorgio Caproni. Scrive infatti l’autrice: "Essenzialmente due sono gli elementi che stanno alla base della costruzione della composizione e che, apparentemente molto diversi, hanno mostrato notevoli punti di convergenza: da una parte tre liriche di Giorgio Caproni e dall’altra la struttura delle bambole russe. Dall’esame comparato dei tre testi di Caproni, tre poesie piuttosto diverse per metrica e contenuto, sono emerse affinità di immagini e somiglianze di sonorità. È stato addirittura possibile ordinare le tre liriche partendo da quella che pareva sommare gli spunti poetici salienti delle rimanenti due, sino a giungere a quella nella quale erano presenti minori punti di contatto. In tal modo il collegamento con la struttura delle bambole russe è parsa immediata e da qui anche l’assetto complessivo dei tre pezzi che, analogamente alle tre liriche, presentano sezioni affini per contenuto armonico e ritmico, pur conservando una ben distinta autonomia compositiva. Dal primo brano che, come la bambola grande e più ricca di particolari, risulta il più lungo ed elaborato, giungiamo, attraverso la composizione mediana, al terzo, quasi breve slancio conclusivo." Noto èil bellissimo Honeyrêves di Maderna, dedicato a Gazzelloni e dal cui nome (Severino) letto in senso contrario, lettere h e y a parte, trae il titolo, che l’accento circonflesso sulla seconda e mira a trasformare il titolo in un crittogramma in francese (“On y Rêve”, “Vi si sogna”), o come un’espressione mista anglo-francese: “Honeyrêves”, “Sogni di miele”. Questo gioco di magiche rispondenze è accentuato dalla comunanza del materiale sonoro del brano con quello di composizioni quasi coeve, quali Don Perlimplin e Serenata IV.(Ettore Napoli)

 

 
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