PROFILO OPERE

Il melologo ritrovato
 

Opere eseguite alla Palazzina Liberty a Milano il 3 ottobre 1996
Come la stagione ’95, anche questa si apre nel segno del melologo, una commistione tra parola e musica nella quale la prima mantiene la propria indipendenza declamatoria ed espressiva e l’altra funge da accompagnamento, da commento sonoro. Messo a punto nella seconda metà del ’700, come conseguenza dell’ingenuo, sincero tentativo di restaurare la primordiale coesistenza di parola e musica da parte di alcuni intellettuali francesi (Rousseau), questo nuovo genere venne identificato con i nomi più disparati (melologo, melodrama, mélodrame), tutti accomunati, non a caso, dalla stessa radice greca mélos ovvero “nenia, canto”. Ma dopo il favore iniziale, testimoniato anche dal successo europeo dei lavori del boemo Jiri Antonin Benda che tanto piacquero a Mozart, il melologo nell’Ottocento si scontrò con il gusto romantico per le vocalità fortemente drammatizzate; tuttavia sopravvisse, o come numero all’interno di un contesto operistico (dal Fidelio alla Carmen) o come genere cameristico altamente poetico, soprattutto nell’ambito di quella cultura musicale tedesca romantica e tardoromantica, che nel rapporto testo-musica ha avuto uno dei suoi topoi caratterizzanti. I quattro melologhi di Liszt - di fatto un’integrale - si distinguono dalla produzione ottocentesca sia per il respiro spesso orchestrale della scrittura pianistica (Der traurige Mönch e Lenore risalgono al periodo dell’intensa attività sinfonica e direttoriale di Liszt a Weimar) sia per le forti potenzialità drammatiche e sceniche dei testi. È da notare che il melologo del 1874, il cui testo originale è in ungherese e in questa versione è stato eseguito per la prima volta a Pest nel marzo del ’74, Liszt nel manoscritto lo definisce “ballata”, memore forse della ballata di Senta nel secondo atto dell’Olandese Volante di Wagner: il verso finale “Wir herzen einander nun ewig / Ora e per sempre ci stringiamo al cuore” nella sua aspirazione all’amore come legame sublimato nell’eternit? è di evidente ascendenza wagneriana. L’interesse dei compositori contemporanei verso questo genere va accolto con favore perché, dopo l’interesse per l’opera teatrale, manifestatosi nell’ultimo decennio e accentuatosi a partire dall’inizio degli anni ’90, è forse la prova definitiva della rinnovata fiducia dei musicisti nella forza poetica della parola, che il radicalismo intellettuale degli anni ’50 e ’60, peraltro storicamente necessario, aveva spazzato via, riducendo quella, la parola, a nudo fonema sonoro. De Il Dio narrante Solbiati scrive: "È la terza volta in due anni che, con grande gioia, collaboro con Paola Capriolo, a parer mio, e non solo mio, grande giovane scrittrice italiana. Insieme abbiamo realizzato due lunghe produzioni radiofoniche, ma qui è tutto molto diverso, per durata (molto più breve), per la formula del rapporto dal vivo tra parola parlata e musica e, soprattutto, perché il racconto da noi scelto, rielaborato ed abbreviato per l’occasione, è, a differenza degli altri due su cui ho lavorato, molto poco “narrativo”, non contiene una vera e propria vicenda e questo conduce ad un rapporto testo-musica molto più sfumato, meno diretto. Al di là di alcune piccole sottolineature locali, la musica lascia molto “parlare” il recitante, e i suoi compiti principali divengono l’inquadratura formale del racconto stesso, la creazione di un clima e di un colore narrativo, il ritrovamento al suo interno di una sottile direzionalità, forse al di là delle parole stesse, conducendo ad una sorta di “conciliazione finale”". A sua volta Davide Anzaghi ha scritto queste righe di presentazione per il suo melologo: "Il testo di Declinava un’estate inquieta è una onirica proliferazione di alcuni versi di Giacosa e Illica, estrapolati dal libretto della Bohème di Puccini, e pronunciati da Mimì nel terzo atto: “Talor la notte fingo di dormire / e in me lo sento fiso / spiarmi i sogni in viso”. Dell’ambigua vicenda da me immaginata non dirò: la voce di Ottavia Piccolo, alla quale il melologo èdedicato, svelerà il microcosmo assai meglio di quanto farebbero le mie parole. All’aura del testo si addice la musica: scritta per consentirne e propagarne l’eco. Chi ha udito il melologo - testo e musica - afferma che da esso promana mistero. È anche un mistero perché io abbia voluto scrivere il testo. Altri tre versi di A. Giurlani, quasi simmetrici a quelli di Giacosa e Illica, hanno attinenza con l’orditura di Declinava un’estate inquieta: “Come possono fare / a vedersi dormire / tutti e due allo stesso tempo?”".


 

 
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