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Il nuovo evento letterario e musicale


Paolo Truzzi

Dal singolare al plurale (hápax legómenon)

Canto I
Lógos


Lógos, verbum, parola parlata, parolata, violentata, bocca aperta, labbro muto semovente, > movimento disperato nello spazio, bucato, sfracellato, stracciato, staccato dai gangli colanti del cervello. > Nuovo spazio spaziato, di là da questo già consumato, bisogno estremo e violento di spaccare questo guscio > imputridito ormai, come cento e mille anni fa, con parole volgari di lingue volgari, nudo in mezzo a questo universo folle plastificato, > per direzionarmi verso le distanze relative delle stelle, spazio-tempo-parola da lanciare fra le galassie, > sciogliere l’acido di questo nonsenso che copre e consuma ossa e midolla di lardo secco e marcio, marrone, > magari fosse merda, ma è niente. > Qualcuno ci ha provato, qualcuno, qui e altrove, altri mondi, altri spazi, altri idiomi: > ma il mondo è ancora e sempre più uguale, parliamo questa lingua pesante, tele neutra visione prosciugata, di niente. > È duro da scalfire lo scafo di questa nave transatlantica, che macina miglia sempre piu veloci, > non sa più della rotta di ieri, vuoi che riesca a farlo io? > Però chi non ci prova… prigioniero è! Cosa cerca di sensificare uno che scrive oggi, per esempio, un romanzo, > con tanto di trama, tranelli, personelli, crescendo e finale, colpevole preso e compreso? > E qualcuno ha il coraggio di leggere a scuola una poesia che lascia tutto come prima, > e ti inganna e induce a credere che la vita sia quella, e bella e così in salmì? > Alle fronde dei salici avevo appeso la mia cetra, e le corde vocali nella mia gola impastata. Ma? Ambrogio Fogar > ha forse esitato e paurato prima di salire e salpare rischiando di non tornare (poi qualcosa ci ha rimesso, lo so)? Posso ancora parlare come mio nonno?
> Di vacca in vacca, di valle in nuvola, di casa in colle, molle di albicocca e dura di cocco, incoerente: > questa è la mia parola, ti arriva di me qualcosa, o tu, qualcuno, che leggi lì fuori? Siamo connessi in quest’aria intasata di onde timtelecomvodafòne > nelle nostre orecchie ormai afone? Il solito idiota presuntuoso, penserai, > che vuol far l’originale sputando nell’orinale, perché non ha niente da dire o di meglio da fare? > O, semplicemente, uno che crede di farla a Pupo e a Galeazzi, leggendo pasolinipagliaranizanzottosanguinetitestorirosselli… > (fatti non foste a viver come drupi, diceva il trio…) > – ma, imbecille, non crederai davvero di fare il furbetto! – Cosa voglio? Perché farnetico? > Per scacciare il bla-bla che ha svestito ogni idioma voglio essere idiota con il mio idioletto sempre nelle mutande, > per riuscire a parlare almeno con me.>

Girano le lancette vorticano roteano quando noi facciam finta di niente e andiamo almareoinmontagna > a festeggiare un altro anno, capelli che imbiancano, intanto, s’impigliano nei denti del pettine, > e il cervello si riempie ancor più di passato e la pelle con lui, > come niente fosse continuiamo continuiamo a mangiare camminando sulla costa destra di un burrone, per strada senza direzione rimpinzando il nostro sacco di dolci > e gabbane. Cosi, furbacchioni, inganniamo il tempo, ma lui, galantuomo, tira dritto e pernacchia. > Sembra scemo chi guarda fuori dal finestrino adocchiando un sasso fosforescente, una carta stradale, > una mano che spiega o che strappa la tenda. > Perlomeno uno specchio, sputacchio che cola nel vetro mi dice che forse davvero esisto. Io: è già molto o qualcosa.

Canto VII
cacolalía

Hu, ku, tru, pugliusculù, tirami, talgolescandolekù, > finiù, kirikù, tu hu, pù, curucupikupikupikù, > hu, dù, chiù, piroghimoreghiscorechigliù, > patù, patù, curcumiscantropo loghequagliù, > pù, tù, chimaricù, dù, ù, pinaticù, qualimerinapicorochigù, > mù, hù, dù, kù, piattulicastropenigorikù > bidù, bidù, kakù, kakù, patarilogopitogo pitù > bù kù mù rù ossidinengobidanolopù > hù, kù pamaritù, kikù kikù, biridogopilù. > Tascologà: ta, ra pan à… pitià: parakà. Nà. Quah! Quah! > Pasco loquasco loquasco loquà! > Pa ra na ta la: paranacoscoloquascocalà! > Mi ti ni ri: piriditongologascocolì! > Uì, qui, miripitì: bidirigingoqualingopinigobirigodilogobilogodolì! > Acajù! Acajù! Gù! Tù! Pù! Bù! Nù! Squù. Stù! Viù! Viù!

Canto X
godémose
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Hapaz?, what’s hapaz? Do you need a hapaz? No, I don’t, I didn’t, what’s that? > Es un primero escudo original, maial, portal, orinal. > Eu quero falar, > con tigo sonhar, > falar como a ti, > vardémo de mi, > vardémo che ’scolta, > con tigo, xè smorta, > ghe sémo ragassi, > ghè anca Tognassi, > l’ho visto na volta > co’ a dona de scorta, > son chi ’me ’n cretino > parlar como un sèmo, > non vojo fermarme, > eo devo parlarme, > xè una staféta > de lengua mai ferma, > finché io me parlo non sento dolor, > non lasso il cervelo tajarme l’amor > per questo besogna continuare per forsa, > ciaperò del cretino, è istesso, poarino, > anderò sempre avanti asiém a voialtri > che state a ’scoltarme no potete fermarme, > co ve fazo compasion, ma sono un sandròn > volete vedere dove ariva ’sto cretin > – continua continua te pari un putìn – > alora continuo ve ’scolto parlar, > parlar finalmente ch’le squasi giocàr, > ghe sono riuscido a farvi arabiar, > però soridendo me state a ’scoltar > parlate anche voi, me importa de gnente, > podì criticar, podì podì perfino sputar, > ve piase un po’ tanto a voi de sparlar > de questo, de quelo, se sbaglia gh’ho càr, > e qui voi potete ben darme del ciuco, > del sémo ignorante, del porco fetente, > idiota semòto bastardo vigliaco, > – che fa quel frescone, sarà mia un profesore, > rovina mio figlio quel porco coniglio, > fermiamolo adeso, va avanti da un pezo > ghe démo un s-ciafòn, fazemo pagarghela a esto cojòn > se non lo fermémo, ’sta faza da sémo, > rovina poi tuto il nostro parlar, > poi no se pol proprio mai piu ascoltàr, > nesuno piu parla normal come prima, > andémo ben tuti a finir in rovina, > no se capìs più le nostre parole, > alora tajàmoghele quee brute gole. – > Vardè bei putèli che questo me piase, > un po’ de casino gh’ho fato col vino, > paremo ubriachi ma un po’ meno strachi, > provémo col gnente qualcuno ghe sente, > sentémo sonar, provémo a ’scoltàr > ’na buza de banana, ’na pel dela mela, > ’na brisa de pan, ’na feta de salam, > me ’a meto qui in tasca, se pol savér mai, > co’ anca ’na frasca, incartém coi giornai, > e sono contento coe braghe sbusàde > le scarpe pelade la camisa slisa, > xè tuta salute par no èsar muto.

Canto XXXVII
euloghía


Energicanto dolce, davanti, verde di fieno > dolce saltando dal filo d’erba sull’argine, orizzonte disteso, > farinato di stelle il firmamento nel buio colorato e amato, > steso di coperta ammaliante, tepore cercato, desiderato, > assieme parlare con le dita sfiorate, nell’ombra delle galassie, > delfini nuotanti all’intorno giocanti a sorpresa, > fascine di steli diversi sfioriti e fioriti, > di terra grassa nutriente, lattemiele nel piccolo, casa di vita > per piccoli insetti e microbi anonimi moventi nei buchi, > densa quell’aria contatto e respiro, > scambio e narici che toccano senza toccarsi > e sangue che scorre nei caldi canali > e cuore che pompa e pompa incessante, > scivoliamo volando su piste del cielo, > la luce di adesso qui e ora se viene > (se tenue la vedo, radure remote) > proviene da stella che non ha più nome > e qui la tua pelle ha un colore di pane > fragrante di argilla, mi abbraccian le braccia > e scorre il respiro dai piedi al cervello > che ormai si è già sciolto e abbraccia il tuo cuore, > il cuore del cielo e il polmone del sole, > la terra sorride e ci guarda e ci sfiora, > il capo reclino che gode carezza, > si chiudono gli occhi nel dolce abbandono, > sognando il mio sogno ti sfioro le dita.

Canto XXXVIII
il cielo sopra la campagna

Per fortuna che in cielo le nuvole girano, > e qui lo spazio è davvero infinito e ubriacante e continuo, > da tutte le parti mi giro e non riesco a abbracciarlo: > e girano girano, nuvole girano, > di sopra di sotto lo strato mediano > del cielo che guarda ed esplora l’idrogeno > in fiore: e mi sento fin qui fortunato > di cogliere forme che volano in cielo, > potermi girare, col collo sognare e > abbracciare abbracciare, di nuovo sognare, > dai cirri che sfilano e carri diventano > e nubi si alternano e provan, sollevan, > quel corpo distratto si alza da terra > e vola con gli occhi sfiorando le punte > degli alberi e nuotano i cirri ed i carri > si scelgono e spingono e mia direzione > diventa di nuovo la mia dimensione > e parlo col cielo e parlo col tuono > di sole, di sale la lingua si scioglie e > s’impenna felice e corre lontano… > un attimo e via da quella prigione, > mi tolgo la maglia e il vento accarezza > la mia pelle d’oca su fragili braccia > e salto più in alto più in alto più su, > non sento più nulla e volo sul niente > e poi lascio scorrere questi minuti > che ormai, poverini, non contano niente > e scopro il contatto con lingue di fuoco > nel volo apparente in cui prendo il volo > e nuoto e nuoto e salto nel cielo > e vivo nel mare di questo mio cielo > e qui più non scorre il mio tempo mentale > che poi è quello vero di uomo mortale > e non mi accontento, ma vado lassù: > illuso spontaneo airone o rondone > disegno a linea perlopiù incoerente > in questo spessore dell’aria apparente > e ancora e ancora continuo a salire, > salire e poi scendere andare e venire, > non vedo i colori ma solo l’azzurro > nel cerchio di luce che esploro contento > e qui la mia pelle si fa più sensibile: > e poi capriole curvate di fianco > il corpo leggero obbedisce nel manto > del cielo che ride e accarezza amoroso > sul filo sotteso a non farmi scordare > chi sono chi ero e chi sogna il mio sogno… > parlando così, finalmente leggero, > spontaneo di piangere, posso davvero, > nessuno mi ascolta, nessun calimero, > io posso io posso, qualcuno capisce > e canto nell’aria parole pulite > o sporche, se vengon, nessuno capisce > e giudica e poi spigolando ferisce… > Sollevo il mio canto finché non sfiorisce, > e fionda e fàscina e parte da dita > che soffian carezze a creature celesti, > che si alzano e toccan ruotando all’intorno > e chi vien toccato se ne va felice > e sale e discende e poi ancora sale > e lancia il suo nome in volo nell’orbita > di immense distanze di costellazioni > che parlan cifrate in lingue di luce, > per ogni galassia cascate di stelle > nel piano inclinato di questo universo, > e qui la mia mente si arrende e abbandona > lasciando sfiorare e cullare l’istante, > effimero raggio che chiamiamo vita, > e forse davvero un giorno il mio nome > diffuso…, di vento…, soffiando…… Sarà…

Riprodotto per gentile concessione di: Piero Manni s.r.l. – San Cesario di Lecce


Paolo Truzzi è nato nel 1961 a Poggio Rusco, nell’Oltrepò mantovano, dove vive da sempre. E’ un poeta anomalo: le vicissitudini della vita lo hanno spinto per molto tempo in direzioni completamente diverse da quella della poesia. Ha studiato Lettere Moderne a Bologna frequentando i corsi di Raimondi, Traina, Anceschi, Mariotti, Dionigi e Brizzi, laureandosi con una tesi su William Blake. Dopo la laurea ha dovuto occuparsi dell’azienda agricola di famiglia, convertendola negli anni all’agricoltura biologica e allevando maiali secondo questo metodo. Ha anche prodotto salumi biologici con il marchio Maia Felix. Negli ultimi anni è riuscito a ritagliarsi uno spazio per insegnare materie letterarie nelle scuole. In tutto questo tempo ha comunque continuato a coltivare la sua passione per la lettura, la scrittura e altri mezzi espressivi. Nel 1997 ha pubblicato, per Guaraldi, il romanzo Come una freccia nel suolo. Nel 2004 ha allestito un’esposizione di suoi dipinti e fotografie. A febbraio del 2008 è uscito, per Manni, Dal singolare al plurale (hápax legómenon), un poemetto caratterizzato da una multiforme sperimentazione linguistica. Continua a studiare la storia della parole, la grafopsicologia, i linguaggi delle emozioni. Colleziona maschere, statue e oggetti d’arte africana. Da sempre è attratto dalla contaminazione dei mezzi espressivi, dei generi e delle culture.

 

 
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