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Frammenti di un racconto
Racconto 46
Racconto 51
Racconto 59
Racconto 83
Frammenti di un racconto
Lo vidi che parlava attorno a sé, con leggeri
spostamenti del busto, e usurpazioni del senso,
riconoscendo tuttavia che doveva essere
un luogo definito, un presente visibile, tangibile,
quello che si mostrava come una nebbia increata
dentro una nube, così aveva detto, senza sorridere,
e perciò si perdeva in queI lessico incerto, ovvero
neI suo presagio, e allora, non credendogIi,
lo interrogammo ancora, perché l'aspettativa
era di ridiscendere a queI punto deI sentiero
che incontra l'argine, e l'acqua riappare
nel suo destino ambizioso di luce senza forma,
finché non avessimo recuperato il passaggio,
quella minima ombra circoscritta che sapevamo
un luogo interminato, dimenticanza, vagabondaggio
e quello che diceva sembrava una sostanza indipendente
con i riflessi dell'acqua, girando attorno alla vita,
spingendo avanti un sentiero dentro l'assedio del legno,
contando nodi e erosioni nei punti più oscuri e appartati,
dove la superficie ritorna con molta pazienza
a una misura di terra, a un inverno scandaglio
che ti disegna fuggendo: il monumento, il muro
dell'aria o dello sguardo, ragione o miseria
che ti separano ancora umilmente, comunque insistendo,
da questo motivo di pena, da questo
insostanziale viaggio, progetto indistinto
dove la proporzione anteriore riassume
quello che avresti pensato, al di là dello sguardo
erano questa forma, questa barriera a descriverti
gli elementi intermedi per esempio, come l'aria e l'acqua
ma era curioso entrare in quella luce marmorea,
perché la ragazza aveva un seno scoperto e una colonna
rampicante, piegava il capo, sulla sinistra una coppa
traboccava di frutta silenziosa come un arazzo
al tramonto, e in basso i candelabri, le cornici,
con la legna ammucchiata vicino al profilo
di un gentiluomo arcigno che mi pareva di riconoscere
nel buio che si infilava nel folto dei capelIi
mentre tentavo con calma di raggiungere
i bagliori delle felci, dei cristalli, delle piume di corvo
che scricchiolavano sulla carta scrivendo, trasformate
dalle parole, e molte mani si aprivano nell'aria
con un gesto d'offerta, gettando attorno il buio,
e capivo che avrei dovuto interrogarmi su tutte
quelle domande, sulla lampada nuda in cucina, sul vetro
della pendola dove il veliero affondava nella polvere,
sul paesaggio scrostato appeso al muro, perfino
sulla ventola azzurra, sulla finestra socchiusa,
su quella piccola luna in vetta a un obelisco
che sta sulla mensola e si comporta, di notte,
come la coda di un gatto, e soltanto con molta attenzione
ne potevo intuire il movimento, perché, di sicuro.
tutto accadeva necessariamente, sebbene lui ripetesse
di giudicare la prova con la ragione, mentre pensavo
a Sesto Empirico, a Clemente d'Alessandria, a Simplicio,
e giungevano da lontano i tuoni sordi della battaglia,
le risa, gli schianti, la morte identica nella sua identità
di morte nella sua incompiutezza terribile
Racconto 46
Per prendere respiro. Aria. Anche se non era un posto del tutto confortevole quel mucchio di fieno annerito fra zolle d’inverno, sotto, come fra i libri, e in altro le travi del tetto piene di personaggi e ragnatele, dove il mucchio finiva come una savana rinsecchita. Ci stavano un abate di Passy, una coppia di saldatori col grembiule di tela grezza e una dama un po’ scollacciata – del primo ‘700, forse irlandese. Così, disteso, per prendere aria era costretto a spostare le ginocchia e le illustrazioni con molta cautela, e perfino con imbarazzo per le tempeste di polvere che si sollevava. Colpi di tosse e proteste da ogni parte, insomma. E tutto questo perché a nessuno venisse il dubbio che stavano lì, accovacciati, stipati, a tirare il collo verso la campagna, senza permesso.
Racconto 51
Era partito dall’alto, muovendo il piede sinistro con più rapidità del destro, in modo da prendere il pendìo in diagonale. Difficile era tenere la pipa fra i denti. Appena passati i cespugli il rumore divenne franoso, insopportabile, di grilli litigiosi, o mosche a capofitto contro gli occhiali. Che si dovette togliere, e gli caddero di mano, e si piegò per riprenderli a volo, in tempo per accorgersi che il meccanico stava cercando di svitare tutti i bulloni, e la signora con la calza smagliata sul polpaccio si era seduta ansimando. Non poteva dir nulla, la signora, né a lui né al meccanico, perché il rumore ormai era entrato dappertutto, nei sassi, negli orecchi, nell’acqua del torrente, nel cappello floscio, nel fango sulle scarpe. Cambiò il passo. I fondo al sentiero chiusero un paio di notti nella pisside per vederci meglio, ma la luna non servì a niente. Inciampò e cadde.
“Strana posizione”, disse senza ironia. Lui, c’est moi.
Racconto 59
Venezia, giugno 95
lei calza quelle scarpe che mi ricordano la guerra, di spago, già sformate prima di calzarle, e inusitate al punto che non sai quanto sia alta, come abbracciarla, per esempio, a parte lo sguardo, lì in quel vicolo umido con i mattoni corrosi e il rampicante che stranamente sfila fino a terra, annegandoti. dunque le scarpe sono il vero oggetto, la descrizione. niente inflessioni dialettali, nessun particolare tono della voce che possa rintracciarla, tutto lo sguardo è allora in quel suo dipanarsi dalle scarpe, o calzari, dalle quali lei oscilla noncurante. mentre lui dietro con quel visibile peso di valigia e l’imbarazzo della calvizie incipiente, l’estroso riporto, lui che arranca compiaciuto che non lascia passo ad altri nel vicolo stretto, schiacciati al muro al passaggio di simile coppia avventata e ineguale tanto che all’angolo sfilano inalberando lui stesso dal colletto il foulard verde shoking verso il ponte dell’accademia e scompaiono
Racconto 83
Seduto sotto una quercia mangiando acciughe e pane. Pensando. Che suo nonno, per esempio, mentre leggeva un numero della “Revue Blanche”, intuì una modifica essenziale al meccanismo del cavaturaccioli. Perché ogni volta gli restava sul collo della bottiglia qualche frammento di stagnola. Perché ogni volta un briciolo di tappo gli infastidiva le labbra con quel sapore amarognolo. “Asciutto”, mormorava il cameriere. Odiava Zarathustra, suo nonno. Non lo poteva soffrire. E il cameriere che si inchinava, piegato sull’orecchio sinistro. Dopo di che si ripuliva la bocca con la manica. Eh, il nonno! Malgrado il meglio gli capitasse di dirlo in francese. “Les mots font toujours dire trop. Ça mène loin, les mots”. Quindi complicazioni a non finire. Quando si alzò il tramonto si era già appoggiato a una pecora, e si faceva portare. Lentamente.
Roberto Sanesi
Critico, storico dell’arte, artista, poeta e saggista, nato a Milano nel 1930. Inizia la propria attività letteraria e di critico d’arte nel 1951 attorno alla rivista “Aut Aut” diretta da Enzo Paci. Nel 1957 fonda le Edizioni del Triangolo. Nel 1960 gli viene assegnato il Byron Award per l’Europa ed è invitato dalla Harvard University
Fonda e dirige negli Anni ’60 la collana Piccola Fenice per l’editore Guanda. Dal 1970 al 1975 è Direttore Artistico di Palazzo Grassi a Venezia. E’ considerato uno dei maggiori interpreti della cultura anglosassone. Si è occupato di teatro in forme diverse: ha collaborato alla Piccola Scala e al Piccolo Teatro di Milano; come regista ha curato per la Radio Svizzera Italiana adattamento e regia di Enrico V e Riccardo III di Shakespeare e Doctor Faustus di Marlowe; è autore del libretto per l’opera lirica Da capo, con musica di Gaetano Luporini, andata in scena al Teatro del Giglio di Lucca nel 1987. Dagli anni ’60 esegue opere di “scrittura visuale” (cfr. Visibile, Book Editore, Castel Maggiore 1991), esponendo in Italia e all’estero. Muore a Milano, nel gennaio 2001.