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AUDIOVIDEOSTORIE



Il nuovo evento letterario e musicale


Maria Pia Quintavalla

I
Sta venendo un tempo
- te ne uscivi improvvisa,
spalancando vetri e silenzio sullo stupefatto giardino di San Paolo –
e indicando il nord, viene da Milano e porta pioggia.
Annuivo, seguendo il tuo profilo sporgersi additare
dove il fischio dei treni aumentava tu restavi calma davanti,
ne eseguivi imperterrita l’ascolto
di vicende del tempo di stagioni, latrice di messaggi - giudizi antichi.

II
Balossa, le sussurrai un pomeriggio
per farla scherzare, 
Sei proprio una balossa, facendole solletico piano
sulle gambe scarne, ma pur sempre belle.
A quella parola, che in dialetto significa monella,
volevo ricordarle tutta l’impertinenza la bellezza fiera
la prorompente sfida che da lei emanava nella giovinezza,
dal suo corpo sempre.

Ma cosa dici, fu la risposta, io che ho vissuto come una suora!
mi tappasti la bocca.

III
Padre di ricotta! gridavi un tempo,
sei un uomo di pasta frolla, perché non mi difendi?
nelle ore del bisogno e del pericolo gridavi all’uno e l’altro, muti,
e io pensavo al friabile molle dei dolci nella lingua contadina,
che addolciva l’invettiva.  
Babbo, babbo! erano le urla udite appena messo piede nella clinica,
Fa così tutta notte, spiegavano le infermiere, come rinfocolando
di notte specialmente lo invocavi, né “mamma”,
né il nome proprio del marito o figlie, ma Abba padre!
l’ invocazione e strazio. Quel padre-madre che più non vedevi,
invocato dalla volta di un cielo già scurito,
non amico e non pronto alla tua notte monte calvo getzemani
di sua natura reclinante duro.

IV
Ti vestirono ignuda e fredda, leste mani ti disinfettarono,
io non ne vidi nulla, non ne seppi immagini.
Tu, abbandonato il corpo fuori
imperversava un’aria bassa di bisbigliate condoglianze
mentre il tuo vuoto dilatava altrove.
Senza di me, gelida e muta, tu fra ignoti, ti lasciarono partire
ti truccarono di bianco, il viola delle guance e mani, i buchi
del volto orbite feroci, né domestici doni ti portammo,
demandata a sconosciute mani, noi di là attorali,
in un circuito chiuso non sentimmo, imploravi figlia, figlio!
vermiglio accurri, accogli.

In tante notti spese al bene, ultimi gesti di pietà inviolata
non ci furono onoranze al tuo corpo smunto e medicato,
niente lenirne i colpi profumarlo riscaldarlo in carezze
unguenti, o labbra benedirlo,
l’immagine della Madonna delle Grazie di Berceto infilai nella bara
il giorno dopo in fretta, altri bigliettini scritti dalle figlie
in amuleto magico al tuo viaggio, ma così separate
e segrete, come il dolore fosse cane da nascondere.

V
Dove ti trovi oggi madre? Sei nell’ineffabile dell’aria
tra i campi vicini alla zolla misuri
lo spazio tra un albero ribelle e il filare tranquillo,
o resti qui tra noi diversi e divisi ancora travolti
dalla tua grande e atroce vita, come ci senti e dove ci ricordi?
hai bisogno di noi, ne sei offesa sfinita e tutto questo
infinitamente piccolo ti turba solo un poco –
se non la giovinezza – nel suo spirito assetato
di carne cruda di guerra.

Fiume riva strada, bruciano campanili dietro la riva
la infinita distanza, totem.
Piacenza campeggia serena. Siamo passati, non siamo morti.
Siamo morti, non siamo passati.
Riva buia strada, il profumo del sisso, cacca buona si spande
diffonde una dolce stesura di note nel verde.
Decise che suonassi, mia madre aveva sempre voluto
suonassi uno strumento, scelse il pianoforte:
si sedeva in cucina alla vista dell’ombroso
giardino di San Paolo aspettava le mie note
dovevano uscire stentate a trilli brevi
nelle sonate a quattro mani poiché non mi riusciva
a calare il mio cuore ma altri suoni assembravano
mi tenevano nella notte attenta.

VI
I tuoi foulards
I tuoi foulards  che da lontano apparivano turbanti,
con gli occhiali fumé spessi di miopia senza rimedio,
tu maestra di sottrazione di sé a se stessa, così ti vedevamo
icona negli antri dei portoni apparire nei borghi degli inverni                                                              da intenso bianco.
Quei foulards ti vestivano come una madonnina,
castigando la purezza della fronte e il naso
ti infagottavano mamma,
che più buona facevano, ti proteggevano in realtà
la testa dai dolori cervicali e da altri fulmini che
non  celesti, potevano colpirti.

  Cara madre dai foulards in pervinca azzurro
o rosa fucsia pallido, che in ampio nodo
incoronavano il tuo viso come un manto 
regale come una Bernadette antica, e ti destinavano –
al sacrificio, o alla visione.
Foulards custoditi in collezione dai molteplici
colori: a tinta unita come li definivi,
o in fantasia di bianco e blu chanel alla moda
degli anni sessanta, o a disegno geometrico
un poco futurista, e giovanile.
Foulards che regalavi spesso alle tue figlie in visita,
come tagli preziosi, quasi monili di tessuto.
Nel più privato regalandoli aggiungevi assorta
mentre li deponevi sul nostro capo o al collo,
Tienilo, ma per questa volta, oppure
separandotene, beh, te lo regalo.

E i rossetti, che usavi metterti indossarli tutti
sulle varianti del rosa in pastello molto caldo, in tinta
con lo smalto dopo la manicure che tu segreta a noi,
nel bagno alla vigilia di visite ai parenti ci mostravi
a me ammirata, e un po’ gelosa del rito esclusivo
dove mettevi in scena la bellezza ma in altre ali lunghe spezzate
della vita e come un gabbiano disegnato in rete, modello
di una lotta per essere diseguali a te, poiché più belle no,
non si poteva, nella luce del bagno incurante
ti incremavi le mani, non il viso: era tuo vanto non averne cura,
come per un antico filtro di giovinezza negli anni
in cui crescevo e ti spiavo la pelle più liscia e luminosa
nutriva sé da sé, come segreta essenza - madrina buona
natura in sé premiata, carnale e soprannaturale,
come da bellezza antica. 

VII
La sostanza!

Tu, che di “sostanza” amavi fare scorta,
tu che la ciccia dolce e imperturbabile portavi addosso
come collana d’oro tu - che non osasti mai smentire tale
il grande corpo della madre, trovasti
nella impenetrabile magrezza ultima una catarsi
antica mistica di te sognata, una tappa ritmica del corpo
e cuore di ragazza, che diceva no -  al suo cibo.
Una sua splendida e trovata vita,
poiché dal lato di magrezza del pensiero, spirito dove
non ti eri mai piegata, dal lato sconsolato di tuo corpo attento,
febbrile sua muscolatura, scatto dei “no” ripetuti in fondo al tempo
dove non ti eri più plasmata, così all’ultimo
tu lo facesti integra,  e   t u o.

Né pancia o adipe più rivedemmo,
ma corpo asciutto di ragazza.

VIII
Parlavi per intonare una tua antica voce

Andavo in visita a mia madre negli inverni ultimi,
quando da anni preferiva restare immobile seduta,
silenziosa sognando un po’ certi pensieri tristi, la vista danneggiata
i piedi e la schiena compromessi, la paura di cadere e di muoversi;
al mio arrivo volevi sfogarti un po’ con me, così dicevi, Lo sai,
che quando vengono a trovarmi, siedono sulla sedia qua di fronte
ma hanno sempre fretta, poi vanno via,
e stringevi gli occhi miopi per far sentire come anche tu
non vedessi bene ma allungandoti verso di me e mio padre,
chiedevi un’attenzione, volavano tristezze e non potevi fermarle,
ti appoggiavi allo schienale, tuo unico sostegno e con la voce
dalla grana piena di suoni amorosi ci parlavi:
Parlavi per intonare una tua antica voce, sensibile profonda
venirci incontro maturare, fiorire e poi cadere seminare
più melodie nella tua stanza, che ne restava scossa,
impregnata al fondo: lamentavi il presente troppo avaro
di gesti affettuosi per te, ma lamentavi anche la sera
le sue solitudini anziane appassite, per poca vita.

E ci straziavi il cuore, noi col cappotto in mano,
vitellini scappati o già venduti al mercato tanto tempo prima
senza che là nessuno il marchio avesse mai potuto
scioglierlo mondarlo, poi estirparlo; tumore colpa di nessuno
che una vita o il destino, si incollasse alla pelle
come sanguisuga.

Altre volte, era la storia immensa dalla cupola illimitata
a ispirarti, farti volare.
Prendevi l’inizio da un qualsiasi ricordo, più spesso strano
lieto  o di tragedia della famiglia e partiva
la danza che ariosa procedeva,
senza limiti di spazio, di profilo vedevo il tuo naso bello e diritto
segnare l’orizzonte, lasciare traccia durevole nell’aria
come la tua voce dare un segno impregnante poi sparire disseminare sé,
i saluti più tardi sarebbero stati evitati perché vissuti
come dramma d’addio che dovevamo ripetere, eseguirlo;
e mai  tra noi nessuna che strappasse l’ipnotica catena,
rompesse l’ordine strattonando il cappio.
E nessuna sapeva, più di te, di quei fatti misteriosi cui parlavi,
che ritessevi ogni volta come  tradizione tua,
quel nostro libro detto e non scritto - cui ciascuno
doveva credere per fede,  quando attaccavi a dire,
“Tu non sai quando..” le orecchie mi si spalancavano il fiato
si faceva corto, le mani immobili per non disturbare te sola,
in solitaria positura, la corolla abbassata, vaticinavi e narravi
di noi della tua vita tutta e di generazioni
che ci avevano precedute, e in quella musica dolente e risaputa

si ricreava intera la storia di un popolo,
la sua stanchezza girovaga e vana verso le periferie la vita
dei Lama prendeva allora un’aria dolorosa ma pur sempre ariosa
e perenne al punto che sentivo di essere parte,
di quella storia intima, vi appartenevo con il cuore più persuaso.

Altre volte ancora era la storia dalla cupola senza tempo
a ispirarti come la storia del fratello prediletto
accompagnato a casa di già morto annegato, a braccia dai paesani,
poiché l’altro, il più piccolo, non era riuscito a muoversi gridare
trarlo in salvo dal letto del torrente Parma, dove era andato
a imparare il nuoto.
E tua madre nel riconoscerlo era impazzita, si era strappata
i capelli e già gridava non si sa quali grida, Accorrete correte!
e tutti tornavano lentamente a casa,
dove lasciarsi fulminare poi dalla visione, e il fratello maggiore
i parenti, gli amici, tutti tornavano dai campi verso sera,
ma lui solo, Glauco non poteva -il più dolce, sensibile
il più  a te vicino che ti aiutava a studiare, a proteggerti dagli altri,
già amico di quel Piero  che ti avrebbe sposata.
E  tu là ragazza, unica femmina incapace
d’avvicinare la madre sempre lontana e dura, che strappandosi i capelli
sulla scena di casa rendeva pubblico lo strazio,
e sul dormiente urlava senza più fiato lo chiamava indietro,
a te nessuno che prendeva le mani, che calmava.

O come quando narravi a noi le fughe dai bombardamenti,
gettando appena lo potevi la bicicletta dentro ai fossi o scappando,
nelle cantine durante gli allarmi aerei, davanti al Cimitero
o all’uscita, trovavi cavalli stramazzati riversi nei fossati
che ti guardavano con gli occhi aperti mentre tu scappavi,
scappavi a piedi, a volte scordandola, la bicicletta,
ferita a morte dalla paura ritornavi, come in trance a casa a piedi,
cantando o singhiozzando con le mani che tremavano, e correvi
non vedevi l’ora di raccontarlo ai tuoi, sfogarti ore ed ore,
questo era il sogno che non si esaudiva.

Altre volte ancora, in non meno feroci perimetri di casa,
nella cucina di San Leonardo dove eri cresciuta,
per la gelosia dei fratelli essi ti rincorrevano intorno al tavolo
dove eri comparsa luminosa,
col rossetto fresco appena indossato e te lo sfregavano via così,
di forza, con un tovagliolo e poi rincorsa, a calci nel sedere
se ti ribellavi. Ai balli dove alcune volte eri accompagnata,
ma non dovevi essere notata, regina com’eri,
del ritmo della danza, folgorante di giovinezza e gioia, i neri
americani ti invitavano a ballare il boogy, i ritmi dell’appena
iniziato dopoguerra .
A Ingrid Bergman dicono che somigliavi, dal profilo perfetto,
ed io pensavo a un’altra Gina, la Lollobrigida, ma nelle foto
eri scolpita più dal sangue spagnolo, nell’ombra degli occhi,
nell’ambrato di pelle un po’ speziata e pura.

IX
Ho sognato
Vedo un gruppo di famigliari scendere da una collina,
appena sopra un ristorante,
il posto non è l’osteria del Gambero rosso,
ma una graziosa trattoria di SanVitale in Baganza
dove colline arrossano la fioritura delle viti autunnali.
Il gruppo si è dolcemente diffuso su una montagnola, passeggia,
per digerire il pranzo e per potere radunarsi, parlare.
In quel gruppo ci siamo io, mia sorella mia madre,
mio padre i miei nipoti. Ognuno si avvicina
si aggrega lentamente agli altri ingaggia materia sicura,
di sguardi cenni, parole offerte, tra persone diverse
anche da vite così lontane, in affettuoso legame che si toccano
Non c’è acredine né ira né silenzi ma danza, avvicinamento
dell’uno all’altro, sono membri della stessa famiglia,
simpatizzano.
Spesso dal bordo di quella cartolina dalle curve collinari
e dalle viti marroni, ho sognato
vedere lo sfondo ideale  di una famiglia.

X
Fammi vedere gli occhi
Nanén! Miciòti, mi chiamavi al telefono quando la sera
fuori dal nido - ci cercavamo. Nanén, nome di tutti
i bambini della terra. Il nome di nanén nel nido – chiude
piano le porte e i battenti – di taglienti spade.
Sono la mamma, nanén! Sono la mamma, mi senti?

Ah sei tu, correvano sul filo le voci trepide
reclamanti la perpetua attesa - di te come sirena,
e come stai, nanén, gli ultimi tempi ancora –
erano i dialoghi sognati, e anche uditi, domande
che avvenivano non avvenivano mi riavvolgevano
ragni nel cuore nelle anse maree di un battito respiro
sotto al diaframma risposta, che riposa
*

Atre volte invece,  Fammi vedere gli occhi, – te ne uscivi,
appena io seduta a tavola poiché di fronte – e là tu mi vedevi,
scrutavi avidamente con libidine gli occhi smisurati, a te somiglianti.
Ti ho fatta io, riprendevi poiché evitavo, Io! ti ho fatta così bella,
rivendicavi oppure, “la mia bambina ecco!” aggiungevi
come se fosse l’ultimo - ricordo di me concesso, avuto.

Io mi giravo a lato, turbata dalla giurisdizione
che poiché là assoluta, mi ghermiva; seducevi me, vinta
ed io, pronta di lingua  ma nel cuore no, ribattevo con uno:
Smettila su, sono cresciuta! già confusa -
e con voce di tenera ragione tentavo persuadere,
oppure là troncando brusca cercavo di sorprenderti,
Ma mi stavi ascoltando, allora? e tu imperterrita,
che nel ricordo di me piccola, vedevi un tempo inoffensivo
un bel corpo di bambola da stringere, e il vento della vita
non passato ancora sul naufragio, così, fissandomi
“la mia bambina”, mormoravi piano
ribattendo il tempo, lo miglior tempo il solo a noi concesso
e quale soglia fulminata, o monito condanna
per chi voleva da lì muoversi, salpare.

XI
Ospedale
Era questa una zona del tempo in cui ruspe per l’aria 
e macerie rombavano cadevano per terra come stelle fitte,
pezzi di realtà volavano e cedevano senza dolore terre
erano prelevate corridoi umani divelti, disseppellite voci
Mia madre era morta un anno prima.

………………………………

Nel pomeriggio, prendendo a lei le mani neppure tiepide
ma profumate e piene di un odore dei vivi,
le posavo sulla mia testa e le lasciavo lì riposare
per ore, coricando il mio volto
sul liscio del lenzuolo, e le sue mani posandosi lì
morbide e vive, un po’ docili nella posa
ma non incerte sui miei capelli.
Quelle ore di carezze immobili
sono state la nostra beatitudine la prima ed ultima,
di noi due insieme.

Dove ti trovi oggi, madre?
Sei nell’ineffabile dell’aria fra i campi
vicino alla zolla misuri lo spazio fra un albero ribelle
e il filare tranquillo o resti qui, tra noi diversi
e divisi ancora, travolti dalla tua grande (e atroce) vita,
come ci senti e dove ci ricordi? hai bisogno di noi,
o ne sei offesa sfinita e tutto questo infinitamente piccolo
ti turba solo un poco - se non la giovinezza - nel suo spirito
assetato di carne cruda, e di guerra.

Fiume riva strada bruciano campanili,
la infinita distanza, totem.
Piacenza campeggia serena. Siamo passati. E non siamo morti.
(Siamo morti e non siamo passati)
Riva buia strada, il profumo del sisso, cacca buona
si spande e diffonde una dolce stesura di note
nel verde - decise che io suonassi, mia madre
aveva sempre voluto io suonassi uno strumento:

Scelse il pianoforte, si sedeva in cucina,
alla vista dell’ombroso giardino di San Paolo e aspettava
le mie note dovevano uscire stentate, a trilli brevi
quasi scolastiche nelle sonate a quattro mani
poiché non mi riusciva di calare il mio cuore
nei segni ma altri suoni assembravano, mi tenevano
nella notte attenta.

Mi fidavo del fiuto del suo sangue
della carezza ardente che il suo piede indicava,
all’inferno era la storia per sempre risaputa
di ragazze e gambe agili della pianura,
pezzo della sua strada al paradiso quelle grida
sante di giusti oh madre che riposi
oggi nella conoscenza, tu stai serena e guarda
come noi piccoli, dal fondo, svolgiamo
compiti sempre più piccoli - se salvatrice accoglici,
sed libera nos a malo:

Le chiavi della galera le tenevo anch’io, però,
la galera vista da sotto, là fuori – guarda! ma tu uno scatto
e ripetuto nei secoli dei no – divenuta carceriere a te stessa,
revoca graziati mettici in salvo, ripara

  *

L’anima di mia madre senza braccia,
e chiara di etere non ha volute – narici soffiano chiare
nel cordone di voci infantili e grazia,
lei stessa con altre anime e facete, acute parole a Parma
si sentono o a Milano, galleggiare per l’aria
ma leggere semprevive.

Mia madre godeva nel ricevere le visite
delle tortorine latrici di messaggi nuovi,
e l’incessante rosmarino ne odorava, amava i gatti
liberi e sornioni, il ballo la musica e la gente semplice
di cuore i ritmi della lingua inglese, volubili
gioie da intenerire.

..Lei stava in un angolo e tremava un po’ diceva,
Cosa mi fanno? nella fantasia cantilenavo,  E’ vero
siamo in un grande prato.
E ci sono i cavalli? mi chiedevi. Io, no
puoi stare tranquilla. Più tardi di scatto,
Ed ora cosa facciamo, dove mi porti?
e per un po’ sognavi ti abbandonavi
nel sorriso seguendo il rotolo
di immagini da sé create, poi di nuovo -
Ora basta, scattavi: andiamo avanti! poi,
rivolendo il sogno galoppato nel verde
ricominciavi, dove mi porti, ora? come seguendo il motto,
andavamo – a cuori giunti.

  *

Come sei bella, allora, ti affrettavi a dirmi e
cominciava così il tuo testamento oscuro.
Le carezze frequenti che facevo, da te sentite come addii,
stimolavano un tuo desiderio materno di lodarmi,
cosa che non avevi mai potuto fare prima, farmi sapere
che l’opinione su di me era diventata buona.
Io avevo indosso una maglia sottile e aderente,
colore scuro, e la formosità appariva snella
come tu eri stata fin da giovane, e più del solito,
fisicamente ti somigliavo.
E mentre attiravo a me il tuo polso sottile,
quelle mani piccole, che ho amato tanto
cominciarono a parlare quasi in un gesto di benedizione,

Quel testamento a cielo aperto giovane e inatteso,
mai giunto prima a destino,
come pioggia improvvisa rivelatrice su uno sconvolto,
un già assegnato cammino,
mutava forse ora le fondamenta di una vita, già assuefatta
al tradire di sé al colpirsi sordo?
Così era scritto.


Ma poi cosa faremo, dove andremo? –
riprendevi il vaneggiare di andar per campi all’aperto –
dove mi porti allora? come una bambola ad occhi sbarrati
attendevi luci sentieri che non venivano.

Così riprendevamo il vagabondare a viso aperto
aspettando rivelazioni ci venissero incontro, io ero
il tuo Sancho calmo, raddrizzavo
ogni tanto il tuo destriero, o smettevo di annuire
lasciandoti andare a briglia sciolta,
più spesso ti rassegnavi e ti assopivi non davi  segno
di volere continuare,
volevi sentirlo tu da sola il sogno a bassa voce –
luci in pianura che scendevano.

   *

Tu mi ispiri, un’altra volta, mentre le carezzavo il viso
m’intenerisci troppo. E andavamo
(mano nella mano) un’altra ancora, invece: Basta!
Ed io, una carezza sugli occhi per calmarla,
Non così ricercata! che mi stanchi, - mi respingevi.

Le massaggiavo i piedi sofferenti,  e lei mi rispondeva,
Quando mi tocchi mi dai calore, e tua sorella
quando lo fa, ha le mani di farfalla. E’ una farfalla sai?
dicevi, svolazza un po’ di qua e un po’ di là.
E al mio viso che chiedeva,
tu e tua sorella v’incontrerete un giorno nella piazza,
che è il cuore della città,
per parlarle, mi soffiò piano, ricordati di lodarla.

“Sono tante le cose”, e il testamento nuovo andava
scrivendosi pian piano nei giorni di settembre, mese
della mia e nostra nascita, crescendo in trasfigurazione.
Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio sangue
per la nuova ed eterna paura
sparsa per voi e per tutti e fate questo in memoria.
……...

 


 

Maria Pia Quintavalla
è nata a Parma, vive a Milano.
Ha pubblicato Cantare semplice (Tam Tam 1984), Lettere giovani (Campanotto 1990), Il Cantare (Campanotto 1991), Le Moradas (Empiria 1996), Estranea (canzone) ( Piero Manni 2000, nota di  Andrea Zanzotto ), Corpus solum, (Archivi del ‘900 2002), Album feriale (Archinto 2005), Selected Poems (gradiva Editions 2008, N.Y).
Ha curato l’antologia Donne in poesia, tratta dall’omonimo festival (Presidenza Comune di Milano 1985, ristampa Campanotto 1988), che si è ripetuto in appuntamenti annuali.
Ha vinto i premi: Tropea, Cittadella, Alghero Donna, Nosside,  Gold winners Nosside, Marazza Borgomanero, Montano, Città S.Vito, Contini Bonacossi, Alto Ionio. Finalista in cinquina al Premio Viareggio 2000. Tradotta in lingua spagnola, tedesca,  inglese, serbo-croata.
Cura seminari sulla lingua italiana presso l’Università Statale degli Studi di Milano.

Maria Pia Quintavalla was born in Parma and lives in Milan
She published: Cantare semplice (Tam Tam 1984), Lettere giovani (Campanotto 1990), Il Cantare (Campanotto 1991), Le Moradas (Empiria 1996), Estranea (canzone) (Piero Manni 2000, nota di Andrea Zanzotto), Corpus solum (Archivi del ‘900 2002), Album feriale (Archinto 2005), Selected poems (Gradiva Editions 2008).
She edited the anthology “Donne in poesia”, inspired by the homonym festival (Presidenza Comune di Milano 1985, ristampa Campanotto 1988).
She won many prizes: Tropea, Cittadella, Alghero Donna, Nosside, Gold Winners Nosside, Marazza Borgomanero, Montano, Città S.Vito, Contini Bonacossi, Alto Ionio. She was one of the five finalists in the Premio Viareggio 2000.Translations of her poetry in spanish, german, english, serbo-croatian.She organises seminars about the Italian languages among which the Università degli Studi in Milan.

 

 
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